Beni ambientali
E portò a tavola coi tuoni - Fabio Tombari e i segnali della Natura
Nel 1971, quando per l’Istituto di Propaganda Libraria di Milano esce una nuova edizione de I mesi, Fabio Tombari ha 72 anni e viene presentato nell’introduzione come un saggio solitario che vive in un piccolissimo paese della Provincia di Pesaro e Urbino, Rio Salso. L’immagine è quella di una persona “cordiale, umana e scontrosa a un tempo, come il suo Adriatico, a volta a volta irsuto di schiume ribollenti e battuto dalla tramontana, e tenero di dolcissimi azzurri”.
Un lettore di oggi che aprisse quel libro si troverebbe di fronte a questo spumeggiante inizio: “La terra che quasi sonnambula vaga per l’etere, sembra destarsi a colpi di champagne. La vigilia, anzi che con abluzioni e digiuni si conclude in bagordi; e Capodanno che dovrebbe aprirci, ci chiude. Grevi, assonnati, pessimisti. L’anno nuovo comincia da zero, da sotto zero. La stessa campagna d’intorno mostra la secchezza d’uno scheletro, e nei cristalli scricchiola la morte più gelida”.
Che libro è? E’ una specie di lunario nuovo, un barbanera in cui vengono convocate varie mitologie, i vangeli, la leggenda della befana, gli astrologhi; e dove prende vita un presepe, al suono di un organetto struggente e divertito; un teatrino di marionette, che poi ricompaiono ad ogni libro come le figure di un album dei ricordi.
Subito, su tutto, c’è l’attesa della neve. “Il barone l’ammira dalla soglia, mentre l’Albina a una finestra gli spiuma un’oca.”. Falsi allarmi, finché improvvisamente la neve cade. “Il capostazione che sta riponendo i fiori, si sente baciare sul naso. Alza il capo, guarda sui binari: nulla. Rada, silenziosa, un po’ tremante, si posa sul pane di un fornaio, sulle prime carrette di ortaggi… Le volpi per non lasciare tracce si vedono costrette a fare dei salti intorno alla tana; un povero ladro di polli in gran fretta deve calzar le scarpe alla rovescia… si posa perfino sui baffi di un monumento, sulla coda ritta di un gatto. Amleto, il pasticciere, dalla porta del forno, s’affaccia soddisfatto sul mondo come su un trionfo alla panna. Qualche ora dopo siamo tutti al Polo: coi passamontagna, i pelliccioni i colbacchi; a sfidare la tormenta i fischi le risa, a bere il ponce il brulè. E nevica sempre, come se Iddio s’affannasse a coprire le tracce, le macchie, le peste degli uomini. Qua e là, rare, le carrate del traffico con gli asterischi dei passeri, il procedere a zig zag del Bel Carolo da un’osteria all’altra”.
I libri di Fabio Tombari sono oggi introvabili, fortunatamente esistono le biblioteche. La Federiciana di Fano conserva tutta l’opera di Tombari e ha dedicato a questo autore un convegno, per i suoi novant’anni, nel 1989, e un ciclo di quattro conferenze dieci anni dopo. Tombari non è un autore dimenticato. Diversi studi critici gli sono stati dedicati in questi ultimi anni da Ernesto Cipollone su “Nuovi Studi Fanesi” e letture tombariane sono organizzate di tanto in tanto da Matteo Giardini che nel 2006 ha proposto una lettura integrale dei Ghiottoni, sconfinando a Mondaino. Il nome di Tombari non appare soltanto nel centro di irradiazione tra Fano e Rio Salso ma è stato richiamato recentemente nelle colonne di “Repubblica” da Gianni Mura. Comunque le generazioni si succedono e riproporre certe letture, qui nelle Marche, può essere utile sotto tanti aspetti. Intanto per una inaspettata attualità del suo sentimento della natura, che potrebbe scalfire la scorza artificiosa e difensiva di tanti contemporanei, quelli che vivono tranquilli solo nelle scritture normalizzate, quegli insipidi minestroni che ammiccano al cinema e alla televisione.
Ma che cosa c’è di interessante in Tombari? Dopo gli anni Trenta e il successo di Frusaglia, dei Ghiottoni e del Libro degli animali, il secondo conflitto mondiale ha spazzato via ogni illusione. Quelle incursioni tristemente ingenue di Tombari in campo ideologico avevano fatto percepire tutta la distanza del suo mondo dalla realtà vera, e le carte figurate dei suoi tarocchi erano finite nei cassetti di qualche freddo mobile di campagna, con lui che si aggirava fieramente lì attorno cercando di dare un senso alle cose. La moglie Angela, la lettura di Rudolf Steiner, l’antroposofia. A fatica i cocci del suo vecchio e fascinoso sussidiario vengono incollati di nuovo. C’è stato un periodo, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, che grazie a Raffaele Crovi la Mondadori è ritornata a pubblicare l’autore fanese. Crovi si era inventata la collana “I libri di Fabio Tombari”, direttamente in economica, e qualche titolo è finito anche negli Oscar: I Ghiottoni, Il libro degli animali, Pensione Niagara e altri racconti. Così Tombari è riuscito ad attrarre nuovi lettori, non solo quelli vagamente nostalgici di un mondo perduto, e neppure quelli pasolinianamente feriti dalla scomparsa di una robusta civiltà contadina (e dalla comparsa di una demonizzata civiltà dei consumi); i suoi nuovi lettori riscoprivano allora nelle sue prose un sentimento della natura ormai sciaguratamente abbandonato e mercificato dal turismo. Fabio Tombari deve aver percepito questa insperata attualità della sua scrittura rossiniana, ed è diventato il gastronomo che dispensa saggezza e ricette. Senza smarrire la genuinità del suo carattere estroverso, individualista e moderatamente anarcoide come tanti suoi concittadini, ha riscritto i suoi libri migliori. Con risultati alterni. Mentre I novissimi ghiottoni non riescono a correggere lo stato confusionario della prima edizione e brillano a intermittenza, Renda e Rondò: Le piante, sembra possedere una compattezza maggiore: qui Cipriano Rondò, barone di Frusaglia e la sua spalla Oliviero Renda, si aggirano in un viridario da alchimisti goderecci e indagano (giocosamente e religiosamente) con verzure e linguaggio, sempre insigniti del titolo onorifico di ‘cavalieri di Re Artusi’ , proveniente per discendenza diretta dai Ghiottoni.
“Giorno e notte il barone non sognava che cene, pranzi, colazioni. Tutto il mondo cambiò d’incanto; diventava commestibile. Vennero le prime piogge, la prima selvaggina, le vaste solitudini della sera. Che doveva fare?”. “Faceva i battuti, tagliava, assaggiava, lessava, tornava ad assaggiare, pilottare, condire, arrostire. Inutilmente la baronessa minacciava di cadere in deliquio ad ogni pranzo, e Regina, la cuoca, declinava le sue responsabilità annunciando lo sciopero della fame universale; il barone Cipriano Rondò, sempre più grasso, più giocondo e chiassoso, brandito uno spiedo, cacciava via tutti, anche i gatti; si barricava dentro, in un fumo di arrosto alla diavola che pareva andasse a fuoco la villa, e giù a sbuzzar leprotti, a sbudellar capponi e capponesse, a spanzar merluzzi, ad accendere sul camino certe fiamme d’olio e di lardo fra un luccichio di pentole”.
Il rubicondo e nobile Rondò sembra prendere vita da una stampa popolare carnevalesca, ma questa volta il basso corporale non manifesta pericolosi rovesciamenti utopici, anzi sembra annacquato dallo spirituale. E’ un marchigiano Paese di Cuccagna, popolato di personaggi che potrebbero essere sognati dalle tre emblematiche figure dell’omonimo quadro di Pieter Brueghel: il chierico, il soldato e il contadino, sdraiati a terra sotto l’albero dei sogni. Potrebbero rientrare nell’affabulazione tombariana anche l’uovo à la coque che passeggia sulle zampe in primo piano nel quadro dell’artista fiammingo, un pollo arrosto che si accomoda sul piatto e un maiale con annesso coltello.
Si sa che Tombari non era propriamente un uomo di cultura, e non voleva esserlo. Questo suo atteggiamento sembrava dettato da un desiderio istintivo di preservare e proteggere la genuinità della propria ispirazione, e anche la forza inventiva, il lazzo di una commedia dell’arte, l’acutezza di un Bertoldo, prima che la teosofia di Rudolf Steiner impastasse il tutto. Eppure è difficile rimanere indifferenti alla lettura del Quintetto d’ottobre, nei Ghiottoni, con quel piglio ariosamente comico dei due alchimisti allucinati e moderni che imbastiscono un dialogo pseudofilosofico, molto simile a quelli che avvengono tra il padre e lo zio di Tristram Shandy; altrettanto difficile è non ritornare con la mente all’altra celebre coppia flaubertiana: Bouvard e Pécuchet. Le differenze sono evidenti, di tempo e luogo e non soltanto, ma genealogie araldiche di questo genere sono state indicate autorevolmente anche da altri critici, per esempio da Giovanni Bogliolo, in una sua magistrale lettura del Libro degli animali. Insomma, Tombari riserva sorprese, non sta fermo nel luogo della biblioteca in cui vorremmo collocarlo. La sua è sicuramente una prosa d’arte che potrebbe accasarsi nella cultura rondista degli anni Venti, del resto Animali e Ghiottoni sono stati preceduti da elzeviri sulla terza pagina del “Corriere della Sera”, eppure le bizze di un provincialismo orgoglioso e ricco di succhi popolari, insofferente di qualsiasi deriva formalista e intellettuale, sconvolgono puntualmente il quadro delle parentele e delle affinità letterarie.
E francamente, come allora a Tombari, oggi interesserebbero poco, suppongo. Come ha scritto Antonio Glauco Casanova, Tombari non mantenne rapporti durevoli con nessuno dei critici o scrittori del suo tempo. Ma non andrebbe comunque equivocato. “Dopo un po’ che si legga Tombari – ha chiosato Luigi Santucci – abbordato come quell’umorista e aneddotista da serata che adombravamo, come ricettaio gastronomo, insomma come uno scrittore minore e provinciale, ci si accorge dell’altra, della vera faccia di Tombari; o se si preferisce del suo dèmone. Che è la Natura con la maiuscola, le stagioni e la loro fremente inquietudine, la meteorologia, le maree e tutto quello che la gran macchina zodiacale muove sul nostro pianeta. Quegli otri annuncianti comicità e buone mense, voglio dire, si slegano presto e come nel mito di Eolo se ne scatena fuori la forza e il genio della Natura. Venti e tempeste, goduti e descritti come saghe elettrizzanti”.
In effetti è impossibile non rimanere catturati dalle descrizioni dei frequenti temporali frusagliani. Basterebbero quelle variazioni temporalesche a suscitare un colpo di fulmine tra lettore e scrittore. Dopo averle lette, in genere viene da chiudere gli occhi, ed eccoci di nuovo in certi quadri di Brueghel. In una natura senza tempo, contadina e fiabesca. O nella cucina di Cipriano Rondò. “Ogni tanto un falso allarme lo richiamava fuori: lasciava la casseruola, imbracciava la doppietta. Un addensarsi all’orizzonte, certi annuvolamenti sul mare. E’ il tempo di domani, profetizzava Nuccia che col bicchiere in pugno che gli tremava era sempre più il vino che beveva di quello che gli cascava. Da come gli puzzava il cane presentiva le tempeste”. Siamo ritornati ai Ghiottoni, che comincia così: “Pomeriggio d’autunno sotto il vento di mare… Sottovento i nebbioni avevano incensato la valle. Era una di quelle sere ampie e affumicate in cui la campagna mostra le travature degli alberi, sì che il mondo pare l’opera di un calafato sporcata alla meglio da un pittore di birocci”.
E i famosi temporali frusagliani? Qualche esempio, a caso:
“Fuori pioveva già a sciacqui contro le rame dei pini, i cani, le automobili, ma i calamaretti che si cardinalizzavano in padella facevano un rumore di pioggia anche più forte. Il mare lontano doveva essere tutto una pelle d’oca; e chissà che conciliaboli sotto quelle tamerici alla riva sbattute dal vento!”.
“Meravigliosa la tempesta a guardarsi accosto al fuoco mentre odorano di santità le olive al tegamino e saltellando scoppietta il sale. Meravigliosa la tempesta quando la valle lontana, immersa nella piova, par di vederla al di là di un bicchiere ”.
“Il temporale venne a un’ora di notte, dopo il terzo boccale, con una scarica di grandine sui tetti ed un rovescio tale, che il vento rimase fino alle nove del mattino, impigliato fra gli alberi, a sbattersi come un pollastro”.
Sarebbe curioso conoscere l’effetto di una simile prosa sulle generazioni pigolanti di sms e messaggini, cresciute (dove fortunatamente hanno potuto farlo) a libri suddivisi per generi e fasce d’età, spesso sapientemente illustrati, davanti a schermi coloratissimi di Pimpe e allegroidi vari, e che provano brividi soltanto se ci sono gli effetti speciali. E forse non hanno mai visto quell’esotico animale chiamato gallina.
Il saggio è comparso su “Scirocco” n. 21 (2008)
Una bibliografia dettagliata delle opere di Fabio Tombari (Fano 1899 – 1989) è consultabile nel volume I libri di Fabio Tombari, pubblicato dalla Biblioteca Federiciana di Fano in occasione del centenario della nascita, nel 1999.
Dettaglio scheda
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Data di redazione: 02.12.2014
Ultima modifica: 05.12.2014
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