Carnevale, feste, tradizioni e lavoroCarnevale, feste, tradizioni e lavoro

Lavori e manufatti agroartigianali

Uccisione del maiale e preparazione delle carni

Mezzi di trasporto del contadino


Carretti e carriole

Materiale: ruote con raggi di legno o di ferro, tavole, stanghe, viti e chiodi.

Costruzione: per costruire una carriola occorreva una ruota con asse a estremità rotanti, sulle quali venivano montate due stanghe con due gambe di legno e di ferro. Alla stanghe presso la ruota veniva fissata una tavola in posizione verticale o obliqua; altre tavole venivano fissate sopra le stanghe per formare il piano di carico.
Un carretto richiedeva due ruote collegate ad un asse di ferro con ricopertura di legno sul quale venivano fissati due sostegni a V destinati a reggere le stanghe. Sulle stanghe veniva fissato un telaio esterno e strisce intervallate per fermare il piano di carico.

Uso: la carriola veniva usata soprattutto per trasportare il letame dalla stalla alla letamaia; la birucina serviva per il trasporto di piccole quantità di foraggio dal campo alla stalla. Come la carriola era spinta o tirata a mano.

Note: Le ruote erano fabbricate dal fabbro; al resto provvedeva solitamente il contadino.

Celso Mei

Il carretto a due ruote (birucina)

“La birucina” è un mezzo di trasporto fra i più antichi che si conoscano.
In campagna si usa ancora. Cinquant’anni fa, invece, era quasi un privilegio possederla. Era tutta di legno, dal letto, alle stanghe, alle ruote cerchiate di ferro. I più poveri erano costretti, per necessità, a doverla chiedere a prestito: un po’ come ora chiedere a prestito o noleggiare un automobile.
Ci si trasportava un pò di tutto: dalle persone alle cose, perfino la dote della sposa; per gli oggetti voluminosi e molto pesanti si usava il carro a due o quattro ruote, come dire oggi un autocarro a due, tre o più assi.
Una disposizione sul traffico stradale vietava di spingere la carretta, si doveva tirare a modo dell’asino.
“Mettere alle stanghe” una persona significava sottoporla a duro lavoro o, se riferito a giovane scapestrato, “mettergli giudizio”. “Tirare la carretta”, anche oggi, sta per avere una forte responsabilità, un impegno gravoso da assolvere.
La birucina o carretta, ha una lunga storia: è stata, ed è ancora, la compagna dell’uomo nell’umile vita di ogni giorno, testimone muto di tante sofferenze e pochissime gioie.

Da "La vecchia Fano", AMADUZZI, 1981

Il biroccio

El birocc, “il biroccio” è un carro agricolo con un lungo timone anteriore, al quale viene aggiogata una coppia di buoi. Ha due ruote grandi adatte per andare su strade sconnesse e nei campi. Questo mezzo, una volta indispensabile per il trasporto dei materiali in campagna, oggi sta scomparendo, sostituito dai trattori e dalle macchine agricole.
Nel documento che segue, attraverso il racconto di un vecchio birocciaio, cercheremo di seguire le fasi di costruzione del birocc e di analizzare le varie parti. Sarà così possibile comprendere il complesso lavoro artigianale che sta dietro alle parti in legno, a quelle in ferro e alla decorazione. Qui viene presentato il biroccio marchigiano della zona di Fano, con la sua forma, i suoi nomi, le usanze locali.
Guido è l’ultimo dei biruciar, facocchi, carradori di Rosciano (frazione di Fano), dei Fiorelli che almeno dai primi dell’800 costruivano birocci, carri, carrette, barroccine, carriole e anche botti. Guido è nato nel 1901 e dopo aver fatto il garzone del maniscalco – ferrava le vacche, verso i dieci anni dopo le scuole, ha cominciato a lavorare nella bottega del nonno Domenico (nato nel 1831) e col padre Ruffo (nato nel 1867). Il fratello Domenico divenne famoso per aver costruito una botte senza cerchi, con le doghe fermate all’interno con incastri a coda di rondine, e divisa in due per il vino rosso e quello bianco.
Guido non costruisce più barrocci dal tempo di guerra ma la sua bottega è ancora piena di attrezzi che ogni tanto tornano buoni per sistemare una ruota, per costruire una carriola.
La ruota
Il biroccio si comincia dalla ruota e più precisamente dal mozzo della ruota chiamato cép o barìl. Dopo averlo sgrossato con l’ascia e la scure da un tronchetto di olmo, lo si lavora e si modella al tornio. Il baril ha la parte interna più grande e quella esterna più piccola e viene bucato con un foro più largo all’interno e più stretto all’esterno che ospiterà l’asse. Col raffietto, il compasso, le trivelle e le sgorbie, si preparano gli incassi per i raggi.
Anticamente si inserivano raggi di legno stagionato su un mozzo di legno verde in modo che, asciugando serrasse i raggi. I raggi del biroccio sono 10–12–14 e generalmente sono di quercia.
Dopo aver preparato gli incassi si «ferra» il baril con i cerchi messi a caldo (scaldandosi il ferro, preparato un po’ più stretto del mozzo, si dilata, entra e raffreddandosi serra bene il legno) alle due estremità, e con due mezze boccole che permetteranno al mozzo di non consumarsi e alla ruota di scorrere bene sull’asse. Le boccole, ovviamente di misura diversa, vengono fissate all’estremità del foro del mozzo.
A questo punto, con sega, compasso, ascia e pialla viene preparato il cerchio di legno, generalmente in legno di noce, in settori chiamati gavi o gavèi, in italiano quarti ma anche gavelli. Ogni due raggi un gavello, e quindi ogni gavello ha nella parte interna due incassi per i raggi.
Montati i gavelli, i raggi e il mozzo, la ruota è pronta, resta solo da ferrarla col cerchione. Questo veniva preparato a mano, battendolo sull’incudine, unito a caldo controllato col compasso e con la ruota. Il cerchione veniva preparato due o tre centimetri più stretto della ruota, scaldato bene e poi dilatato, messo con pinze e cagnola sulla ruota (ci volevano almeno tre persone). Come i cerchi del mozzo, quando il cerchione si raffredda rinsalda bene i gavelli fra loro e i raggi fra i gavelli e il barile.
Il carro
Le ruote alte del carro erano più pratiche per le buche per andare nei campi, se la ruota è piccola si infossa facilmente. Per i campi ci si caricavano 10 – 12 quintali, su strada fino a venti; per il fieno si allargava il piano con le controscale fin sopra le bestie. La decisione di fare un biroccio nuovo era importante e veniva presa dopo aver parlato in famiglia. Veniva il capoccia e ordinava il biroccio verniciato o no, più piccolo o più grande. Se uno stava in collina lo faceva più piccolo e più leggero. Un biroccio ben lavorato veniva a costare 40-50 scudi, cioè 200 lire e a quei tempi, prima della grande guerra ci volevano 200 lire per comperare un paio di buoi. Il grano andava 18 – 20 lire al quintale e il vino 4 soldi (20 centesimi) al litro. Per fare un biroccio ci voleva più di un mese in due. Per il pagamento si faceva un accordo sulla parola e si pagava un pò per volta dopo i raccolti di più o di meno a seconda di come era andato il raccolto.
Come fabbro invece ero pagato un tanto all’anno in natura dopo la trebbiatura, la raccolta delle ulive, la raccolta delle ghiande e con alcune forme di formaggio. Il fabbro teneva gli attrezzi in ordine ei contadini gli davano un tanto. Questo sistema si chiamava a còtim. Come il fabbro erano pagati a cottimo il dottore, il veterinario, il parroco…
Il colore
Il biroccio terminato veniva decorato dallo stesso artigiano. Si dava un colore di fondo, generalmente turchino oltremare, a tutte le parti esterne, che poi venivano decorate in bianco o colori vari con semplici motivi, o fiori.
Le scene più comuni che si dipingevano erano fiori o paesaggi; davanti un contadino con le bestie e S. Antonio in alto a destra, dietro una figura. Spesso le figure si prendevano dalle cartoline.
Sulle sponde del carro da una parte si metteva il nome del birocciaio con luogo e data, per esempio:
FATTO DA FIORELLI GUIDO DI ROSCIANO NEL 1911 oppure, se era riparato RIATATO DA FIORELLI G……. E dall’altra parte il nome del contadino, per esempio: LISCINI GIUSEPPE PADRONE DEL CARRO NEL 1911.
Nei primi tempi (prima della prima guerra mondiale) i colori si facevano in casa. Si acquistavano le pietre e si macinavano con una pietra rotonda su una pietra piana e levigata. Ottenuta la polvere la diluivano con olio cotto.
I colori che si acquistavano in pezzi, di uso più comune erano: la biacca di Genova, il blù di Parigi, il turchino oltremare, il giallo cromo, il rosso cinabro, il nero d’avorio. Quelli che si acquistavano in polvere erano le terre d’ombra, gialla e rossa.
Si usavano pennelli da decoratori per le immagini e le “codine” per i filetti (le riquadrature dei pannelli e le decorazioni delle varie parti). Prima di dipingere sulle tavole si preparava il disegno su un foglio di carta e matita, poi si cospargeva il retro del foglio di nerofumo e si ripassava il disegno sulla tavola. Con questa primitiva carta carbone si aveva il disegno, poi si passava alla coloritura.
Le bestie
Le vacche o i buoi venivano aggiogati al birocc. Prima si fissava il giogo sul collo, l’anello del giogo (prima di legno e poi di ferro) veniva fermato al cariòl perché non scorresse in avanti, le bestie venivano poi legate per le corna al blìc (ombellico) perno di legno all’estremità del timone, perché non scorressero indietro. Le bestie erano abituate a stare a destra o a sinistra del timone ed avevano un nome diverso a seconda della posizione e del sesso. Se erano femmine quella di sinistra veniva chiamata biò, quella di destra bunì, se erano maschi quello di sinistra faicò e quello di destra namurà.
Usi del carro
Quando il carro era finito si aspettava la domenica. Lo venivano a prendere con le bestie infioccate, con le coperte bianchissime e dalle corna unte, cordoni con fiocchi di vari colori. Si faceva passare davanti alla Chiesa per farlo vedere e si andava alla casa del contadino per el prans del birocc. Al pranzo oltre che la famiglia era invitato anche il costruttore del carro.
Il carro infiocchettato si usava per portare l’uva nelle cantine del padrone (con due tinozze), o il grano. In quei giorni venivano in città delle grandi colonne di carri infiocchettati.
I birocci in festa si usavano anche per le sfilate di carnevale.
Poi si usava ed era la più importante, per andare a prendere la dote.
Si prendeva il biroccio più bello e più a posto del vicinato, con le bestie infioccate e si infioccava anche il carro.
Qualche giorno prima del matrimonio si andava a casa della sposa a prendere la dote. Pezzo per pezzo la dote veniva stimata e, dopo la stima, caricata sul carro dentro la cassetta (cassapanca) assieme ai mobili: il carico veniva coperto con la coperta da letto buona. Poi si andava a casa dello sposo.
Prima della guerra si pagava il bollo e si doveva mettere una targa di metallo smaltato.
Un giorno i militi della stradale hanno fermato uno di qui detto Mistura che era sul biroccio senza targa. «Non lo sa che senza targa non può andare?» e Mistura: «E chi l’ha dit, sensa rot en se pol gì….».
Il biroccio veniva usato anche come misura. Dire «ho piantato tre birocc de fava» significava che si era piantata fava per la quale servivano tre carichi di letame.
Tre detti legati al birocc «el va ‘l birocc!!!!» Si dice per commentare la buona sorte di qualcuno, come a dire «ti va bene eh!».
«Si l’ultim com el vogul del birocc», «Sei l’ultimo come l’argano del biroccio», a uno troppo lento nel fare le cose. «Piturata com el pupin del biroc»: «Dipinta come le figure femminili del biroccio» si dice di ragazze truccate troppo vistosamente.

Da “El birocc”, TONUCCI, 1978

Altre informazioni sul biroccio in www.museipartecipati.it

La treggia

La treggia, interamente fatta di legno e senza ruote, è una specie di slitta trainata da buoi o da altri animali, usata dai contadini principalmente per il trasporto del fieno dai campi. E' diffusa nelle zone di montagna, dove si impiega anche per trasportare legname o anche persone attraverso luoghi impervi. Attualmente (2000) non viene più usata.

Luciano Poggiani


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 01.01.2000
    Ultima modifica: 12.02.2008

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