Carnevale, feste, tradizioni e lavoro
La filandaia e la lavorazione della seta
Il lavoro in filanda era assai duro sia per il numero di ore giornaliere (11 all'inizio del nostro secolo) che per l'ambiente costantemente permeato dal cattivo odore emanato dalle crisalidi cotte e intriso da una vampa talvolta talmente fitta da non permettere di scorgere nemmeno le compagne (in filanda, nella produzione, erano tutte donne).
Le mani, poi, costantemente a contatto con l'acqua bollente o comunque molto calda, venivano martoriate tanto che era predisposta per le sutiere una bacinella di acqua fredda che serviva per bloccare il dolore quando si scottavano, cosa che accadeva assai frequentemente. Lo stesso uso dell'acqua fredda che lì per lì dava sollievo, risultava invece dannoso alle mani che alla sera erano gonfie, doloranti e si piagavano.
Il caldo soffocante, poi, l'aria fetida, l'alto grado di umidità, i forti sbalzi di temperatura fra l'interno e l'esterno della filanda risultavano micidiali per organismi deboli ed indifesi, specie quelli delle bambine che sin da piccole dovevano contribuire al magro bilancio familiare. Il pericolo maggiore era la tubercolosi, male costantemente in agguato che mieteva continuamente vittime.
Tali condizioni di lavoro erano conosciute ma chi andava in filanda aveva assoluto bisogno di guadagnare qualcosa pur sapendo che la paga giornaliera era oltremodo misera, la più bassa dei salariati dei diversi settori (concia di pelli, tessitura di cotone, lino e canapa, fabbrica di cappelli, fabbrica di oggetti di terracotta, fabbrica di fiammiferi, lavorazione dell'olio di oliva).
Gran parte delle filandaie proveniva dalla zona del Porto e le famiglie più bisognose mandavano anche le proprie bambine di non più di dieci anni. La vita in filanda, oltre che malpagata e dannosa alla salute, era oltremodo faticosa: e le donne avevano poi il "doppio lavoro" della casa, del cucinare e lavare, dei figli che andavano "sistemati" presso parenti o "dalle suore del Porto".
Eppure le filandaie vivevano con serenità la propria vita ed in filanda erano come sorelle, c'era solidaietà e non esistevano gerarchie nonostante le mansioni diverse.
I rapporti fra sutiera e maestra erano buoni: la maestra insegnava il mestiere alla più giovane e si scambiava di posto con lei dandole la propria assistenza ed i propri insegnamenti. Il 13 dicembre (Santa Lucia, giorno della "Fiera di scaldin") la sutiera regalava alla maestra uno scaldino di terracotta pieno di fichi secchi, datteri, noccioline, mandarini, mele... A mezza Quaresima, poi, veniva regalata la Vecchia, una pupa di carta la cui ossatura era costituita da due cannucce ricoperte di fichi secchi.
Durante le lunghe ore lavorative le fatiche, accentuate dalla ripetitività delle operazioni, venivano alleviate dai canti che "vivacizzavano" un lavoro nel quale era proibito parlare perché deconcentrava. Le canzoni perciò erano l'ideale per la filanda dove "si alterna il canto delle litanie e delle divozioni di maggio, con quello delle più sboccate canzonacce che abbondano nel repertorio popolare" (G.Grimaldi). Gli stornelli erano i canti più frequenti, parlavano della vita della filandaia, riportavano i versi che i marinai cantavano sotto le finestre delle ragazze di cui erano innamorati, erano dei "dispetti" degli innamorati respinti, molti venivano improvvisati al momento e consentivano alle filandaie di "dialogare" fra loro attraverso rimandi scherzosi ed allusivamente "spinti".
Il linguaggio delle filandaie era sempre abbastanza colorito e per questo le "setarole" non godevano di buona fama in città anche se la loro vita era talmente ingrata da non consentire tanti grilli per la testa. Oggi delle filande non c'è quasi più traccia ma è viva nella memoria storica collettiva l'immagine di moltissime donne che per più di un secolo hanno scritto un'indelebile pagina della storia fanese.
Dettaglio scheda
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Data di redazione: 01.01.1999
Ultima modifica: 13.08.2004
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