Carnevale, feste, tradizioni e lavoroCarnevale, feste, tradizioni e lavoro

Attività lavorative nel bacino del Metauro - premessa e...

Lavori nei campi nel corso dell'anno

Il contadino


L’impegno costante del contadino, in ciascun giorno, era la cura degli animali. Egli si alzava di buonora e si recava subito nella stalla dei bovini per accudirli. Dava loro da mangiare, d’estate l’erba falciata dal campo, la sera precedente e, perché nemmeno un filo d’erba fosse sprecato, la trinciava insieme a un po’ di fieno con il trinciaforaggi. Nel frattempo che gli animali mangiavano, il periodo di un pasto completo aveva la durata di oltre un’ora, il contadino sistemava la lettiera: toglieva lo sterco e aggiungeva altra paglia. Al termine, se la stalla non era attrezzata di abbeveratoi, il mezzadro conduceva gli animali alla fonte o al fosso per abbeverarli; d’inverno, quando l’acqua gelava, egli aveva cura di riempire dei recipienti sistemati nella stessa stalla e, poi, con dei secchi porgeva da bere ad ognuna delle sue bestie.
Agli animali da lavoro l’uomo dei campi imponeva sempre gli stessi nomi. I buoi li chiamava «Faicò», quello di destra e «Namoré», il sinistro. Tali appellativi hanno origini molto lontane; derivano, infatti, dagli incitamenti che impartiva il bubulcus –il bifolco- dell’antica Roma ai suoi animali. Costui, durante il lavoro del campo quando era giunto in cima, per invertire la corsa, ordinava all’animale di dritta «Fac locum!» [Fermati!] e a quello di sinistra «Ne moreris!» [Non attardarti!], in maniera che la coppia girasse su se stessa. Invece le mucche si chiamavano: «Biò» la destra e «Bunì» o «Favorì» l’altra. Per le mucche, come si può notare, i contadini usavano termini più adatti alle femmine: Biò, infatti, potrebbe derivare da Bionda o Biondina e Bunì da Bonina e Favorì da Favorita.
Le donne, nella prima mattina, rassettavano le proprie stanze da letto e successivamente si spartivano i compiti: alcune accudivano gli animali di bassa corte, polli conigli, maiale, pecore. L’addetta alla mungitura si adoperava, in un secondo momento, a fare il formaggio. Una, la capoccia, rimaneva in cucina, accendeva il fuoco e si apprestava a preparare la prima colazione per tutta la famiglia. Tale pasto era, di solito, abbondante ed era costituito da quello che c’era in dispensa o nell’orto: frittata con cipolle, con frattaglie di pollo, patate lesse o arrosto, affettato e così via. L’addetta alla cucina rimaneva sempre in casa per svolgere le proprie mansioni. Intanto i bambini, in età scolare, a piedi si dirigevano verso la scuola, mangiando il cibo durante il percorso. La colazione, appena pronta, era consumata insieme intorno al tavolo. D’inverno, quando le giornate erano più corte, si tornava a pranzare nel tardo pomeriggio, poco prima di buio, utilizzando in questo modo tutto il periodo di luce per i lavori fuori casa: taglio della legna e delle siepi, potatura delle viti e degli alberi da frutto, scapezzamento di olmi, gelsi, pioppi e salici, sistemazione dei fossi di scolo, assestamento delle strade poderali e così di seguito.
Durante i lavori di falciatura, di mietitura, di aratura e di semina la prima colazione si faceva nei campi, sul posto di lavoro. Ci si sedeva per terra, intorno al mantile, un piccolo telo bianco, predisposto da colei che aveva portato il mangiare. Al centro, era sistemato il piatto di portata, il pane affettato già da casa, il recipiente del vino, quello dell’acqua, un unico bicchiere e qualche forchetta. D’estate si ritornava a casa a mezzogiorno, al suono della campana. Va detto che le campane e il percorso del sole, per la gente che attendeva alle faccende dei campi, erano l’unico punto di riferimento, durante tutto l’arco della giornata. Il suono del mattutino annunciava l’inizio del nuovo giorno; quello di mezzogiorno la pausa del meriggio; il rintocco delle venti ore – le sedici- comunicava l’ora della merenda e quello dell’Ave Maria il termine della giornata.
A mezzogiorno, appena giunti a casa, si governavano i bovini; poi ci si sedeva a tavola per il pranzo; questo secondo pasto si componeva, in genere, di un piatto unico, costituito da pasta fatta in casa e condita con sugo di pomodoro, di legumi: fagioli, ceci, fave fresche, piselli. Nei giorni festivi e in quelli di maggior lavoro era usato il condito fatto di carne. Subito dopo pranzo gli uomini tornavano nella stalla per finire il lavoro di governa dei bovini, mentre le donne accudivano al maiale e ai polli e l’incaricata alla cura della casa sistemava la cucina. In estate, tutti, dopo queste faccende, andavano a riposare, tranne i bambini, i quali approfittavano dell’intervallo libero da impegni per giocare in pace, senza essere disturbati. Nel pieno della calura gli uomini preferivano sdraiarsi all’aperto per terra, all’ombra di un albero o di un pagliaio; invece le donne prediligevano il letto. Dopo il riposo ognuno riprendeva il proprio lavoro fino a sera. Per i lavori più onerosi, come la falciatura e la mietitura, in cui erano impiegate varie persone, ci si concedeva una breve pausa, verso le sedici, per consumare la merenda. La pietanza variava e dipendeva, più che altro, dalle disponibilità della dispensa e dalla volontà di chi era addetta alla cucina; se costei aveva uno spiccato senso del sacrificio, accendeva il fuoco e cuoceva la crescia sulla graticola o sul panaro; questa, unita a dell’affettato o a del formaggio, formava un piatto molto gradito; altrimenti metteva sul mantile pane, affettato, formaggio e avanzi del pranzo. Dopo la breve pausa della merenda si riprendeva il lavoro che proseguiva fino a sera inoltrata. Con il rientro in casa, ognuno riacquistava il proprio ruolo nella cura degli animali e nella sistemazione della stalla e di quant’altro c’era da sbrigare.
La giornata lavorativa era così conclusa; se si era fatta una merenda sostanziosa non si cenava, ma si faceva una sosta prima di coricarsi: si discuteva sul lavoro svolto e si programmavano le faccende per la giornata successiva. Questo momento del giorno, d’estate, si trascorreva all’aperto, gustando la prima brezza della notte; invece, nella stagione fredda, ci si radunava intorno al camino, al tepore del fuoco.

Emilio Pierucci

Il garzone del contadino

Un lavoratore da pochissimi conosciuto e ricordato forse da nessuno, è il garzone del contadino mezzadro.
Credo oggi non ci sia più in alcuna parte d’Italia.
Il mezzadro, 50 anni fa, anche poco lontano dalla nostra Fano, conduceva una vita grama fatta di rinunce, di stenti, di tanta miseria e di molto lavoro; quando gli venivano a mancare le braccia, per varie ragioni, sufficienti alla conduzione del podere, era costretto a prendere il garzone a sue spese, per non essere disdettato dal padrone.
Le famiglie contadine con numerose bocche da sfamare mandavano i ragazzi di età superiore ai dieci anni a garzone presso altre famiglie contadine, per un compenso annuo irrisorio, quasi sempre in natura.
È facile immaginare la vita del povero ragazzo trapiantato, in giovanissima età, presso una famiglia forse più povera della sua, a dover sopportare lavori non proporzionati alle sue forze.
A volte capitava con buona gente, che gli faceva pesare poco la lontananza dai suoi, la solitudine, la durezza stessa del lavoro; ma in certi casi il ragazzo si trovava in condizioni che, dispiace dirlo, avevano somiglianza di schiavitù: scarso vitto, molto lavoro, a volte botte, per letto un pagliericcio non lontano dalla stalla, privo di ogni libertà.
Allora il povero ragazzo prendeva dimestichezza con le bestie, specie con il cane e con le pecore, che conduceva al pascolo.
Né poteva pensare di tornare a casa, perché si doveva rispettare il contratto fra i due capi famiglia. In cuore gli cresceva un profondo senso di rassegnazione e di avvilimento, ma a volte tanta ribellione che sfociava in fughe o in atti di violenza.
Comunque, il tempo trascorso come garzone lascerà in cuor suo una traccia negativa, per tutta la vita.

Da: “La vecchia Fano”, AMADUZZI, 1981


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 26.07.2004
    Ultima modifica: 23.09.2006

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