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DA S.VINCENZO IN CANDIGLIANO AI CALANCHI DI CA’ ORLANDI (sentieri non ufficiali e sentiero CAI n.471) (Comune di Sant’Angelo in Vado)

Tempo di percorrenza: h 4,00  (percorso ad anello)
Lunghezza: 13 km
Difficoltà: E.  Dislivello: 300 m
Ultima verifica dell'itinerario: 2024

Questo è uno dei Demani Forestali Regionali più recenti: le acquisizioni di questi territori da parte dello stato risale agli anni 1960. I numerosi poderi sparsi entro i suoi confini sono tutti, tranne uno, ridotti a ruderi. La gran parte di essi risalgono a tempi in cui, in queste zone, non era ancora arrivata la corrente elettrica.

I calanchi sono il tratto paesaggistico più impressionante di questo pezzo di natura protetta: in questo percorso li troviamo sin dall’inizio ma il più grande e spettacolare lo troveremo nel finale, sul crinale di Cà Orlandi, e ci potremo anche salire sopra.

Lungo la strada che percorre tutta l’alta valle del Candigliano, nei pressi dell’omonima località compare il cartello che indica la vecchia chiesa di San Vincenzo. La stradina che la raggiunge passa di fianco ad una casa non più abitata ma con molti animali da cortile. La chiesa è abbandonata da decenni. Parcheggiamo e torniamo sulla strada principale, l’attraversiamo e prendiamo il viale rettilineo che porta al cimitero. Il sentiero passa a destra delle mura, tra la fitta vegetazione, e sbuca a ridosso di un fosso che costeggeremo a lungo, camminando a volte sul bordo del calanco, a volte sul sentiero ampio e poi, talvolta, nel mezzo dell’impluvio creato dall’acqua e dalle moto che passano di qui in modo illegale. Ci sono i segnavia per orientarsi e per tenere la sinistra ai due bivi che incontriamo quando ormai siamo lontani dal fosso e quasi sempre dentro il bosco. Uno sterrato più largo ci fa poi finire in un’area con alberi e arbusti molto radi, finché, dopo un dosso, vediamo il primo rudere e troviamo una breve discesa che ci immette nel viottolo che costeggia una recinzione e termina quando incrocia un’altra stradina che giunge qui da destra. Svoltiamo a sinistra e poco dopo incontriamo la sbarra che segna l’ingresso ufficiale nel Demanio. Altro sterrato ma in migliore stato rispetto agli altri: decisamente in miglior stato anche il bosco attorno a noi e gli animali selvatici che qui sono salvi dalla minaccia della caccia. Qualche minuto in falso piano ed ecco un nuovo incrocio: questa è la strada di servizio del Demanio e noi andiamo diritti, in salita, nella curva che ci proietta verso Cà Taleo i cui ruderi vediamo vicinissimi, eleganti, ma anche un po’ spettrali. Poco più avanti i campi del vecchio podere, ancora oggi dati in concessione ad un agricoltore, mentre la strada procede in piano, comodissima e immersa nel verde. In una decina di minuti si arriva al punto in cui la strada pianeggiante cambia pendenza e si scende passando in un’area interessata da frane e di recente risistemata con un apprezzabile lavoro di ingegneria naturalistica. Dopo un paio di tornanti, persa un po’ di quota, si ricomincia a camminare in piano e presto si arriva davanti ad un altro rudere: di questo è rimasto poco ma la sua posizione e soprattutto il suo nome, Cà Faeto, danno molto da pensare, dato che di faggi ora qui non ce ne sono più. Ancora strada di breccia, senza auto e con tanto bosco attorno. Dopo una breve salita, sulla destra, si intravede un laghetto che vale la pena andare a vedere da più vicino, scoprendo nelle orme degli animali sulle sue rive quanta vita selvatica c’è ma non si vede. Poi il nostro largo sentiero passa di fianco la recinzione del vecchio vivaio, realizzato qui subito dopo la demanializzazione così da favorire le operazioni di rimboschimento; ormai lo si può considerare un arboreto e fa sfoggio di sorbi domestici e ciavardelli di dimensioni davvero ragguardevoli. Finisce la recinzione, di nuovo una lieve salita ed ecco sulla destra stagliarsi tra le punte degli alberi il fabbricato più importante: la chiesa di Santa Maria dei Medici di cui si vede il campanile. A breve troviamo il modo di scendere vicino ai resti di questa vecchia pieve di campagna: ci si può anche affacciare alla porta per ammirare la sua semplicità e le sue piccole dimensioni impreziosite però da alcuni affreschi. Tornati sullo stradello andiamo a destra per affrontare l’altra parte della facile salita che porta all’ultimo importante bivio. Bivio che riconosciamo perché all’altezza di una rara pineta che ci appare sulla sinistra. Proprio a sinistra entra il sentiero che interessa noi. Finalmente ritroviamo le dimensioni canoniche del sentiero, che dopo i pini incontra delle ginestre ed esce su di una piccola sella che segna l’inizio dell’ultima lunga discesa. A parte piccoli tratti di bosco, i suoli tornano ad essere quasi completamente spogli: in alcuni dei tanti ginepri che incontriamo c’è il rarissimo vischio del ginepro. Poi, quando prendono il sopravvento i calanchi, siamo rapiti dai colori e dalle forme del terreno. C’è anche qualche passaggio reso complicato dalle acque che si incanalano ed erodono la crosta. Superati i ruderi emozionanti di Cà Orlandi si scende ancora un po’ fino ad arrivare all’altezza del grande calanco: per andarci sopra occorre deviare per poco più di 100 metri sulla destra. Ritornati sul sentiero c’è un altro bel calanco a cui passare sul margine alto e poi le ripide rampe finali, a volte nel bosco, a volte nei solchi scavati dalle piogge, a volte sulla nuda arenaria. Sbucati sulla strada nei pressi del ponte sul Candigliano non resta che svoltare a sinistra. Ora bisogna camminare per un paio di chilometri sulla strada parzialmente asfaltata, passare davanti al poligono e raggiungere il punto di partenza.


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 19.10.2024
    Ultima modifica: 19.10.2024

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