Itinerari
Fano: Piazza XX Settembre (itinerari storici)
La caratteristica forse più interessante dell'odierna Piazza XX Settembre di Fano è la singolare contestualità di testimonianze storico-artistiche delle epoche più diverse. La convivenza, nell'ambito di un unico spazio, di modelli architettonici compresi fra l'età romana e il secondo dopoguerra, fa di questo luogo un "unicum" nel tessuto urbano fanese.
Cercare di fornire informazioni reali che facilitino la comprensione di una realtà antica, è impresa non facile. Tanto più quando si tratta di "far capire" senza poter vedere e, a maggior ragione, quando "da vedere" non restano che poche, seppur suggestive testimonianze. Tuttavia, tralasciando il rigore scientifico, si vuole, con queste poche righe, offrire un'occasione per conoscere la vita passata di quello che è oggi il cuore della città: Piazza XX Settembre.
Chi oggigiorno percorre tale piazza, dotandosi di una spiccata fantasia e facendo un salto a ritroso nel tempo di circa 2000 anni, non si ritroverà a passeggiare nel forum dell'antica Fanum Fortunae, bensì in un'area ugualmente frequentata ed abitata dai nostri antichi concittadini.
Questa frequentazione è ben documentata dai numerosi resti archeologici di epoca romana, ancor oggi visibili, rinvenuti nell'area sottostante l'Ufficio Informazioni del Comune, nelle cantine di Palazzo Bambini, nei sotteranei del Palazzo Malatestiano, sotto la platea del Teatro della Fortuna, nelle fondamenta dell'odierna Torre Civica; tali resti rappresentano le più antiche testimonianze del lungo percorso storico-artistico che ha interessato l'area oggi occupata dall'attuale Piazza.
Resti di edificio romano all'angolo di Via Froncini
Quando nel 1986 fu ricostruito il palazzo sito all'angolo tra Piazza XX
Settembre e via Froncini (Palazzo del Turismo del Comune di Fano), vennero alla luce i ruderi di un edificio romano di
cui rimangono significative testimonianze delle murature e dei pavimenti.
Si tratta di un ambiente che mostra ancora ben visibili in alzato i muri
perimetrali e, abbastanza ben conservato, il pavimento in opus spicatum (a
spina di pesce). La presenza di tre colonne - verosimilmente erano quattro -
inglobate in tali muri perimetrali, potrebbe far pensare all'atrium di una
domus, successivamente tamponato in seguito ad una ristrutturazione; ciò
avrebbe comportato anche l'ampliamento del pavimento. Due curiosità sono degne
di nota: la presenza di un bollo laterizio che riporta la sigla QCLODAM(BROS),
riferibile alla fornace di Aquileia di Quinto Clodio Ambrosio, e tre tubuli in
cotto, evidentemente utilizzati per lo scarico delle acque. Il marchio di
fabbrica è la chiara testimonianza dei contatti della colonia Julia Fanestris -
i contatti avvenivano verosimilmente via mare e da ciò si deduce anche l'esistenza
di un attivo porto commerciale - con le regioni del nord; i tubuli di
drenaggio, invece, indicano che in quel determinato ambiente era utilizzata
l'acqua, particolare significativo in quanto le abitazioni romane non erano
dotate di impianto idrico.
Adiacenti a questo ambiente si notano i resti di un pavimento monocromo in opus tessellatum (a mosaico). Nell'ambito dello stesso scavo, ma situate sopra lo strato di crollo dell'edificio romano, si rinvennero anche tre tombe ad inumazione, databili all'incirca al VI secolo d.C. Una di queste sepolture aveva un frammento di vaschetta come testata ed era ricoperta da una lastra con iscrizione latina - tipico caso di riutilizzo di materiale - datata alla prima metà del I secolo d.C.
Resti di edificio romano sotto il Palazzo Bambini
Nel 1984, in seguito a lavori di ristrutturazione di Palazzo Bambini, riemersero numerose strutture di epoca romana.
Anche in questo caso, i muri perimetrali, il pavimento a mosaico a tessere bianche e nere, una vasca rettangolare per la raccolta dell'acqua, potrebbero riferirsi ad una domus, anche se lo spessore dei muri perimetrali e la stessa vasca di raccolta dell'acqua non escludono che tali resti possano essere pertinenti ad un edificio pubblico piuttosto che privato. Una grossa vasca circolare, forse un pozzo poi tamponato, che spezza due di questi muri romani, è sicuramente di epoca posteriore.
Nella stessa area si notano, sparse, altre tracce di muri, grosse pietre in arenaria, forse utilizzate come basi e un collettore fognario, parte coperto "alla cappuccina", parte con volta a tutto sesto, evidentemente in corrispondenza di un decumano che collegava due cardi (gli attuali Corso Matteotti e Via Nolfi) dell'antica città.
Allo stato attuale delle conoscenze, entrambi i siti archeologici sopra trattati non sono in grado di offrire un quadro complessivo della situazione in epoca romana, nè permettono di affermare con precisione la destinazione e funzionalità dei vari ambienti riconosciuti, tuttavia, se di fronte a tali ruderi qualche ipotesi si può avanzare, molto più difficile è pronunciarsi sui resti di pavimentazione a mosaico riemersi sporadicamente nel corso degli anni.
Pavimenti a mosaico
Già noto dal 1740 è il mosaico "del Nettuno", quando fu rinvenuto sotto il "campanile di Piazza". Si tratta soltanto dell'emblema, ossia della parte centrale di un mosaico a ben più ampia rappresentazione. Nel tondo è rappresentato Nettuno sul suo carro, alla guida di una quadriga trainata da cavalli marini. Il mosaico, conservato al Museo Civico di Fano, è databile alla seconda metà del II secolo d.C.
Nel 1929, invece, venne in luce, sotto l'attuale sede centrale della
Cassa di Risparmio, il cosiddetto mosaico "dei pesci".
Il pavimento è costituito da un riquadro centrale in opus sectile
incorniciato da due fasce in opus tessellatum. L'opus sectile è formato da
lastre di marmi policromi assemblate in un canovaccio geometrico molto semplice.
Le fasce a mosaico sono decorate da due pesci stilizzati e da un granchio posto
al centro. Tale mosaico, conservato in situ, è databile tra la fine del II e
gli inizi del III secolo d.C.
La vicinanza di due mosaici a tema marino ha fatto pensare all'esistenza, in quell'area, di un edificio termale, di cui sicuramente l'antica Fanum Fortunae era dotata. Nel mondo romano non era inusuale, infatti, adattare il tema del mosaico alla funzionalità dell'ambiente che lo custodiva.
Infine, durante i lavori di ristrutturazione del Teatro della Fortuna, nel 1984 sono venuti in luce, sotto la platea, resti di due pavimentazioni romane a mosaico policromo appartenenti ad ambienti di un unico complesso.
La decorazione di uno è quasi del tutto perduta; l'altro invece presenta un tipo di decorazione ad intrecci curvilinei, che fa datare tale mosaico, e quello precedente, agli inizi del III secolo d.C. Sono entrambi conservati in situ.
Il visitatore, di fronte a resti archeologici spesso poco leggibili, come sono quelli relativi alla Piazza, potrà forse rimanere deluso per la loro frammentarietà, o interdetto, per la difficoltà di comprendere, ma senz'altro tali testimonianze non mancheranno di suscitare in lui quella legittima curiosità per l'antico; tale curiosità, se non permetterà di ricostruire il passato, avrà comunque il merito di far rivivere un importante periodo storico.
Palazzo del Podestà e Teatro della Fortuna
Dopo aver visitato i resti romani appena descritti, è sufficiente spostarsi di alcuni metri per trovarsi di fronte alla testimonianza più importante dell'epoca comunale: il Palazzo del Podestà.
Un Comune, quello fanese, che nel corso del XIII e XIV secolo non fece eccezione alla generale instabilità e turbolenza dei Comuni italiani. Qui, alle consuete tensioni fra ceti politico - economici contrapposti, si univa la forte rivalità tra due nobili famiglie, i Del Cassero e i Da Carignano, rivalità che solo l'esterna minaccia malatestiana sembrò in qualche modo placare. Proprio nel tentativo di superare le pericolose lotte intestine, anche a Fano venne instaurata la magistratura podestarile e, per il Podestà, il piacentino Bernabò di Lando, nel 1299 si edificò l'imponente palazzo sul lato settentrionale della piazza.
Un palazzo, quello costruito da magister Paulutius, come un'epigrafe
orgogliosamente rivendica nell'ultimo pilastro a destra dell'osservatore, che
non potè che dominare con l'imponenza spaziale e il forte significato politico,
il centro della città medievale.
Anche oggi, seppur modificato (è scomparso il triplice loggiato alla
base, recenti sono le colonne delle quadrifore, falsa ed incongrua la merlatura
superiore), il palazzo conserva, nella sobrietà ed austerità dello stile
lombardo-emiliano, un'imponenza ed una suggestione che incutono rispetto
all'osservatore.
Quel rispetto che i Fanesi antichi, venuto meno il ruolo politico del palazzo, in epoca malatestiana, riservarono certo
alle tre statue sacre che, ormai da secoli, ornano la facciata.
Al centro, con la cattedra, legittimo attributo in quanto primo vescovo
cittadino, fin dal Trecento veglia sulla piazza dei Fanesi il patrono, S.
Paterniano. Ai lati, in cotto, si aggiunsero successivamente S. Eusebio e S.
Fortunato, mentre il quarto protettore, S. Orso, trovò sede, per un certo
periodo, nella chiesa di S. Antonio.
Strano destino quello del palazzo podestarile: dopo aver perso il suo ruolo politico, non riacquistato neanche alla caduta dei Malatesta, a partire dal XVII secolo ha nuovamente rappresentato per i Fanesi un punto di riferimento, qualcosa a cui guardare e a cui tenere. Tutto ciò grazie allo scenografo fanese Giacomo Torelli che, edificando il Teatro della Fortuna, inglobò nella fabbrica anche il palazzo. Da allora esso ha condiviso con il teatro la propria sorte: fortunata quando il teatro era preso a modello in tutta Europa, meno quando, ormai pericolante, fu necessaria la ricostruzione tra il 1845 e il 1863 ad opera del Poletti, infine triste, a partire dal 1944, una chiusura che si è protratta sino al 1998, anno della riapertura.
In quel penultimo anno di guerra, anche il "campanile" del Bonamici, che dal 1740 ornava il palazzo del Podestà, fu minato dagli occupanti tedeschi e, crollando, danneggiò seriamente l'interno del teatro e la facciata stessa del palazzo podestarile.
Mentre il teatro ha iniziato solo da poco una nuova vita, la torre fu
ricostruita quasi subito, naturalmente caratterizzata dallo stile dell'epoca.
Quella torre ha da sempre fatto discutere i Fanesi e, visti gli ultimi,
ventilati progetti, chissà se quando leggerete queste righe sarà ancora là, al
posto che occupa da mezzo secolo.
Una città che non cresca in maniera disordinata e confusa, che tenda
alla preservazione di un progetto lineare, di un rapporto equilibrato di tutte
le sue parti, si caratterizza per l'alternarsi di diverse spazialità, per
l'instaurarsi di una serie di rapporti interni fra pieni e vuoti, tra costruito
e giardini e, su vasta scala, tra urbano e rurale.
Fano, città di antica storia e civiltà, ha visto crescere il proprio
centro urbano alla luce di tale criterio ispiratore.
Palazzo Malatestiano
Proprio qui, in Piazza XX Settembre, l'antica Piazza Maggiore, possiamo osservare come riescano a convivere ed armonizzarsi spazi diversi per dimensioni e funzione: la piazza stessa, innanzitutto, area vasta e dispersiva, adatta a grandi movimenti di masse e, vicina, la piccola, aggraziata, discosta Corte Malatestiana.
A far da cesura, e insieme passaggio, tra questi due "mondi
distinti" è l'arco Borgia-Cybo (1491), testimonianza preziosa dell'arte
rinascimentale e, al contempo, celebrazione della ritrovata libertas
ecclesiastica, dopo la fine della signoria malatestiana.
Inoltrandosi nell'androne "sorvegliato" dalla Madonna dei
Martinozzi, realizzata nel 1579 per volere della nobile famiglia fanese, ci
affacciamo nella Corte, che vide, sei secoli orsono, le vicende talora
gloriose, talora drammatiche, dei Malatesta da Verucchio, signori di Fano.
Oggi, certo, ben poco possiamo immaginare di quelle storie lontane;
troppo remota è l'eco dei fasti che sicuramente la corte potè vantare,
soprattutto durante il dominio di Pandolfo III (1385 - 1427). Costui,
spregiudicato capitano di ventura, trovò il tempo, tra una campagna militare e
l'altra, per arricchire la signoria di due capolavori: il suo palazzo, che
fronteggia il visitatore appena entrato nella corte, e la non lontana tomba
della moglie Paola Bianca, nel portico della chiesa di S. Francesco.
Proprio il palazzo pandolfesco è quello che ha subito la sorte più
benigna ed è riuscito a conservare, intangibili dalle secolari distruzioni o
modifiche umane, le splendide bifore in cotto (quattro all'interno, quattro
rivolte verso via Nolfi) e la sobria, preziosa monofora che, sulla sinistra,
chiude un prospetto architettonico ad un tempo gotico ed orientaleggiante,
frutto di sicuri influssi settentrionali e unico nel panorama artistico fanese.
Non ci riescono quindi a disturbare i falsi, incongrui merli, aggiunta
ottocentesca, o la consapevolezza che la parte destra dell'edificio, lo scalone
e la loggia sono frutto di una ricostruzione cinquecentesca, resa necessaria
dalle distruzioni apportate da un incendio. Anzi, qui, nelle svelte colonne
ioniche del suggestivo loggiato, ammiriamo piacevolmente la raffinata mano di
quel Giovanni Bosso, scalpellino lombardo, attivo in altri cantieri fanesi.
Certo, altre perdite sono sicuramente più dolorose; l'intero piano
nobile affacciato su via Montevecchio, ad esempio, abbattuto in seguito ai
danni riportati nel corso del terremoto del 1874: qui, nel '500, due pittori
importanti quali Persiuti e Morganti, ornarono rispettivamente la cappella di
Corte e la Sala dei Priori, ambienti che per secoli costituirono il centro
della vita sociale e politica di Fano.
Non sono andate perdute, invece, le "case malatestiane", l'insieme di edifici lungo via Galeotto Malatesta (1357 - 1385) che, proprio costui, primo signore malatestiano, volle come residenza personale. Certo però, la radicale trasformazione operata nel 1930, pur rifacendosi ad una sorta di "medioevo di maniera" e risolvendo gravi problemi di degrado che ormai affliggevano le strutture, ha eliminato del tutto, salvo in alcuni ambienti interni, ogni riferimento dell'antica realtà architettonica.
Infine, a chi, dopo questo rapido sguardo d'insieme, voglia conservare
un'immagine, un ricordo di questo angolo fanese, un invito: osservi con
attenzione le rose stilizzate, simbolo malatestiano, che ornano i capitelli del
porticato.
A queste rose, usuale simbolo di caducità, vorremmo dare un diverso
significato. Vogliamo immaginare che siano la perenne testimonianza di una
stagione, quella signorile che, pur breve nel tempo, ha lasciato a Fano una
eredità, di storia e di arte, che nessuno in futuro dovrà disperdere.
Fontana della Fortuna
Le fontane, opera talvolta di architetti famosi, di illustri scultori o, più semplicemente, di modesti artigiani e scalpellini, sono tra gli elementi ornamentali più suggestivi delle nostre città. Da sempre hanno rappresentato un punto di riferimento, di incontro, di conversazione.
Si scorgono negli angoli più nascosti dei centri storici, zampillano acqua ai lati delle strade principali, si trovano nei crocevia più frequentati; spesso, proprio in virtù della loro funzionalità, occupano gli spazi più significativi della città, assumendo, in questo caso, un aspetto monumentale, artisticamente interessante.
Anche i Fanesi vollero una fontana, importante, decorativa,
scenografica. Quale miglior ubicazione, allora, se non il cuore della città? Fu
così che Piazza Maggiore venne arricchita dalla cosiddetta "Fontana della
Fortuna".
Il primo problema fu, ovviamente, quello di alimentarla, dal momento che
l'antico acquedotto romano era periferico. Il 20 febbraio 1576 l'acqua giunse
per la prima volta in piazza e fu solo allora che la fontana, di cui si avevano
notizie già dal 1552, divenne funzionante.
Si trattava di una fontana ottagonale, di stile rinascimentale. Solo
successivamente fu abbellita con una statua raffigurante la dea Fortuna, a
ricordo di quella divinità che ebbe un tempio a lei dedicato, quel fanum che
diede il nome alla città.
La statua venne fusa nel 1593 dall'urbinate Donnino Ambrosi, ma solo nel
1611 ebbe il posto cui era destinata, relegata, fino a quel momento, in una
nicchia della residenza comunale. Fino allora, infatti, la nudità di quella
statua riempì di scrupoli la coscienza di alcuni magistrati, al punto che la
fecero tener nascosta nella nicchia suddetta.
Attualmente l'originale della statua della Fortuna è conservato nel Museo Civico, mentre sulla palla posta al centro della "fruttiera" si trova una copia moderna in bronzo. Una curiosità colpisce l'occhio attento del visitatore: il velo svolazzante della dea è rivolto nella direzione contraria a quella dei capelli della stessa; questa, che da molti fu ritenuta un'incongruenza, da altri, invece, è considerata un'arguta simbologia del carattere "sfuggente" della fortuna.
In un documento del 1697 si parla, per la prima volta, di "nuova fontana". Il restauro che da anni si andava progettando consistette in un radicale cambiamento: la fontana ottagonale venne sostituita con quella quadrangolare tutt'ora esistente, di gusto baroccheggiante, policroma e ornata di leoni e di delfini, con alternanza di linee rette e curve. Il progetto fu, con ogni probalità, del veneziano Ludovico Torresini.
La Fontana della Fortuna è stata raffigurata nella serie di francobolli emessi dalle Poste Italiane nel 1978, dedicati alle fontane d'Italia.
Dettaglio scheda
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Data di redazione: 01.01.1999
Ultima modifica: 12.01.2010
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