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Pesaro e dintorni negli aspetti naturali: Clima

Pesaro e dintorni negli aspetti naturali: Geologia – Curiosità petrografiche


PESARO E DINTORNI NEGLI ASPETTI NATURALI

Geologia – Curiosità petrografiche
I conglomerati poligenici. Più volte, scrivendo sulla serie dei terreni, sui minerali, e sulle rocce, ho ricordato l’esistenza nel Pesarese di depositi di ciottoli distribuiti entro le formazioni sabbioso-molassiche del Pliocene, ed anche in alcune che sono forse riferibili al Messiniano superiore; ciottoli che si presentano ora sciolti, ora più o meno cementati in paraconglomerati o conglomerati e con dimensioni che vanno da 2-3 ad oltre 25 cm. Nel nostro territorio tali depositi si trovano - e, stando al dire di varii Autori che se ne sono occupati (e per quanto io stesso posso testimoniare per alcuni luoghi), si trovavano con maggior frequenza ed abbondanza nel passato, prima che venissero utilizzati come materiali da massicciata e costruzione - sulle sommità di Monteluro e M. Peloso, nelle valli attorno a S. Veneranda (Trésole, Condotti, ecc.), presso la Madonna dei Mazza, e in altre località attorno a Novilara e Trebbiantico; appena fuori dal circondario ve ne sono nella valle del Fosso Sejore, nei dintorni di Roncosambaccio, e sui colli tra qui e Fano; ancor più in là, presso S. Costanzo e Mondolfo, e in qualche altra località.

La eccezionalità della presenza e della composizione di questi conglomerati (che si dicono poligenici perché costituiti da elementi di più tipi litologici) ha attirato sin da tempi assai lontani l’attenzione degli studiosi; ad essi pare abbiano accennato anche U. ALDROVANDI ed altri nei Secoli XVI e XVII, ma, senza andare troppo indietro, possiamo ricordare che - fra i tanti - se ne interessarono in maggiore o minor misura G.B. PASSERI (1759 e 1775), A. BODEI e G. BRIGNOLI (1813), G. BROCCHI (1817), V. PROCACCINI-RICCI (1830 e 1834), G. MAMIANI DELLA ROVERE (1835-1845), D. PAOLI (1838 e 1842), L. SPADA-LAVINI e A. ORSINI (1855), F. CARDINALI (1880, 1881 e 1886), S. TRAVERSO ed E. NICCOLI (1896), F. SACCO (1899 e 1937), A. MARTELLI (1904) I. CHELUSSI (1908), C. DE STEFANI (1923), ed altri ancora sino a R. SELLI (1954). Anche chi scrive queste note ebbe ad occuparsene - da un punto di vista puramente lito-mineralogico - negli anni tra il 1938 ed il 1965, collezionando una raccolta di alcune migliaia di campioni, relativi ad oltre 250 tipi litologici e minerali, alcuni dei quali sono largamente rappresentati nei depositi, altri rari o rarissimi, e talvolta noti (almeno a me) per esemplari unici.

La sopraddetta eccezionalità consiste sia nel fatto che questi ciottoli provengono da rocce estranee non solo al nostro territorio, ma a tutta la regione marchigiana, a quelle contermini, e ancor più in là per un raggio di centinaia di chilometri, sia nella netta prevalenza in essi di tipi litologici eruttivi o metamorfici rispetto ai sedimentarii.

Non è possibile riportare qui un completo elenco delle rocce rappresentate, ma vale la pena di ricordarne almeno le principali. Tra le eruttive (intrusive ed effusive): graniti e granititi di più tipi, varie sieniti (ivi comprese alcune monzoniti) dioriti, gabbri, peridotiti, rioliti (ovvero porfidi quarziferi), trachiti, porfiriti (quarzifere, augitiche, plagioclasiche, ecc.), diabasi, melafiri, nefeliniti, ecc.; tra le metamorfiche: gneiss, granuliti, molti micascisti (anche granatiferi), quarziti, filladi e scisti sericitici, anfiboliti, pirosseniti, calcefiri, granatiti, dolomie e calcari cristallini (marmi), ecc.; infine tra le sedimentarie (intese in senso largo, ossia comprensive delle clastiche, piroclastiche, chemiogene e organogene): varii tipi di arenarie (comprese abbondanti arenarie porfiriche), brecce (anche piroclastiche), marne calcaree, molti tipi di calcari e dolomie, selci, tufi (porfirici, porfiritici, melafirici, basaltici, ecc.), e altro ancora.

Già dissi altra volta (v. IL QUOTIDIANO, n. 39, 18.2.1976) dei rari minerali che si rinvengono nei depositi in parola, ma, per malaugurata svista, l’elenco risultò mutilo e inesatto , e quindi lo ripeto qui, anche in considerazione della sua importanza: quarzo, calcedonio, diaspro, calcite azzurra, dolomite, ortoclasio, albite, anortite, augite, fassaite, granati {grossularia, almandino, hessonite), vesuvianite, prehnite, tormalina, staurolite, heulandite, mordenite {o arduinite), analcime, muscovite, biotite, titanite, apatite, spinello.

Il grande interesse di questi depositi di ciottoli risiede non solo nella natura litologica dei loro elementi costitutivi, ma anche nell’origine degli stessi, origine che - per quanto si sia indagato e ipotizzato in proposito – è e rimane piuttosto oscura. Alcuni studiosi (e fra questi va ricordato F. SACCO) propendono ad ammettere per i ciottoli in discorso una provenienza alpina, altri (ed oggi sono forse i più) preferiscono ipotizzare un luogo d’origine più vicino, vale a dire un antico massiccio emerso nell’Adriatico ancor prima del Pliocene, poi sprofondato e sommerso, e attualmente sepolto sotto i sedimenti del mare. A sostegno dell’una e dell’altra ipotesi - la seconda delle quali è forse la più affascinante - si portano fatti e prove diversamente interpretabili. Personalmente mi confesso favorevole piuttosto alla prima (provenienza alpina) che non alla seconda, e ciò soprattutto sulla base di considerazioni d’ordine lito-mineralogico, vale a dire al fatto che i ciottoli rappresentano nella stragrande maggioranza rocce e minerali ancor oggi presenti nelle Alpi, e soprattutto nelle Alpi Orientali; fra l’altro, l’analisi dei campioni da me raccolti ha permesso di ricostruire una serie di tipi litologici perfettamente identica (con esclusione delle rocce più tenere, che del resto difficilmente potrebbero avere resistito a un lungo trasporto) a quella ricavabile dall’esame delle rocce esistenti nel bacino dell’Adige, con presenza di elementi peculiari dei rilievi montuosi in esso compresi.

Sia come sia, l’esistenza di questi depositi di ciottoli costituisce senza alcun dubbio un problema oltremodo interessante, problema che forse solo future acquisizioni delle conoscenze geologiche potranno soddisfacentemente chiarire.

La “rena terebrante “ Chi si reca a passeggiare sulla spiaggia pesarese, specialmente nel tratto sottostante all’Ardizio, può imbattersi - soprattutto dopo le mareggiate - in chiazze di sabbia che, per il colore grigio-violaceo o roseo-vinoso, si differenziano dal generale giallo-grigiastro dell’arenile; tali chiazze sono ampie da pochi decimetri a qualche metro quadrato, e variano nello spessore da uno o due millimetri ad un paio di centimetri o talvolta più. Si tratta di quella che G.B. PASSERI, nella sua opera Dell’istoria dei fossili dell’Agro Pesarese e di altri luoghi vicini (I ediz.: Venezia, 1759; II ediz.: Bologna, 1775), denominò rena (o arena) terebrante a causa dell’uso che ne veniva fatto quale abrasivo nel taglio e lavorazione dei marmi ed altre pietre ornamentali, nonché nella molatura dei cristalli; uso protrattosi fino a qualche decennio addietro, del quale io stesso (come tanti altri) sono stato testimone, ed ora abbandonato sia per il progressivo esaurirsi di questa sabbia, sia perché le tecniche moderne offrono oggi prodotti di gran lunga migliori.

La sua notorietà pare datare da epoca molto antica, visto che ad essa sembra aver già accennato PLINIO (Naturalis Historia, XXXVI), né, dato anche che dava luogo a raccolta, e ad un certo commercio ed esportazione interna, poté sfuggire all’attenzione dei “Naturae curiosi” dei secoli passati; fu nota anche fuori d’Ita1ia, e, tra l’altro, se ne scrive anche negli Atti dell`Accademia Reale di Francia relativi all’anno 1710. In tempi a noi più vicini se ne interessarono sotto differenti profili non pochi studiosi, fra i quali si possono menzionare G. BROCCHI (1817), F. CARDINALI (1880), E. ARTINI (1896), S. TRAVERSO ed E. NICCOLI (1896), I. CHELUSSI (1911), C. DE STEFANI (1923), G. ROVERETO (1924-25), R. SELLI (1954), per tacere di altri. A titolo di curiosità, si può ricordare che ne fu messo in mostra un campione (con il nome di Arena fina silicea) nella collezione di rocce e minerali utili inviata dall’Accademia Agraria di Pesaro a1l’Esposizione Internazionale di Londra del 1862.

Si tratta di una sabbia granatifera arricchita dall’azione selettiva del moto ondoso e delle correnti marine; la sua peculiarità consiste appunto nella notevolissima percentuale di granato, donde il colore, il peso, e la particolare durezza che ne ha motivato 1’uti1izzazione quale materiale abrasivo. La sua composizione è qualitativamente e quantitativamente variabile, tuttavia all’analisi microscopica rivela pressoché costantemente i seguenti elementi: granato (rosa-violaceo, sempre molto abbondante), quarzo (incolore o bianchiccio, abbondante), orneblenda (verde o nerastra, frequente o talora abbondante), calcite (bianca, in genere molto frequente), epidoti (generalmente verdi, abbastanza frequenti), pennina (verde, frequente), muscovite (biancastra o gialliccia, frequente) biotite (bruna o nerastra, frequente), augite (verde o verde-nerastra, frequente); e poi, di solito meno rappresentati, o scarsi, o rari, ortoclasio, plagioclasi, glaucafane, tremolite, actinolite, iperstene, diopside, magnetite, ematite, zircone, rutilo, topazio, e poco d’altro. I granuli sono solitamente minuti, mentre si dice che in passato avessero dimensioni medie superiori a quelle riscontrabili nella sabbia comune, ed effettivamente ciò risulta dall’esame di campioni raccolti nei secoli scorsi.

Come per i conglomerati poligenici cui dedicai l’articolo precedente, le opinioni sull’origine di questa sabbia sono diverse e spesso contrastanti. R. SELLI (1954) appoggia l’ipotesi già avanzata da TRAVERSO e NICCOLI (1896) sulla provenienza dai prodotti di disfacimento di rocce cristalline sommerse nell’Adriatico, ma tuttora emergenti sul fondo del mare; altri sono di parere differente. Personalmente, dopo aver accertato la presenza dei suoi elementi costitutivi - talora addensati in sottili lenti od orizzonti intercalati alle sabbie, molasse, ed arenarie - nelle formazioni arenacee del Messiniano superiore e del Pliocene, ritengo che l’origine secondaria vada ricercata nei prodotti della demolizione dei rilievi costieri abrasi dal mare, e forse anche in quelli derivanti dall’erosione e dilavamento operati dagli agenti meteorici sui rilievi più interni. Se poi i sedimenti che costituirono le rocce delle sopraddette formazioni abbiano avuto origine adriatica (G. ROVERETO, 1924-25, ed altri), oppure diversa (ad esempio: alpina), è questione sulla quale si può discutere a lungo, che si presta alle medesime ipotesi ed interpretazioni già accennate trattando dei conglomerati poligenici.

Certo si è che la saltuaria comparsa de la “rena terebrante” sul nostro litorale non pare doversi ricercare in una attuale provenienza da fondali profondi, ma piuttosto nell’azione abrasiva del mare sugli arenili costieri; infatti, allorché forti mareggiate e soprattutto con mare da levante - demoliscono e fanno arretrare la spiaggia, la “rena” è più frequente ed abbondante, altrimenti è il contrario e basta effettuare uno scavo neppure tanto profondo nella parte più interna dei vecchi arenili ai piedi dell’Ardizio per imbattersi in depositi - talora cospicui - di questa sabbia particolare: quanto più ricchi ed estesi saranno stati tali depositi qualche secolo fa, quando la nostra costa non era ancora giunta all’attuale punto di erosione? Si dice anche che la “rena” compaia solo sul litorale tra Cervia e Falconara, e che manchi su quello delle Marche centro-meridionali (R. SELLI, 1954); il che non è vero come ho potuto direttamente accertare trovandone in abbondanza nel settembre 1963 sulle spiagge a Sudest di Pesaro, e tra Cupra Marittima e Grottammare. Comunque, sulla sua origine primaria vale quel che si può dire per i conglomerati poligenici, ossia che non ne sappiamo ancora abbastanza; e quindi: ai posteri l’ardua sentenza.


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 23.08.2010
    Ultima modifica: 23.08.2010

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