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I LEMBI BOSCHIVI RELITTI DEL BASSO SUBAPPENNINO PESARES...

CENNI SULLA VEGETAZIONE, FLORA E FAUNA DEL MASSICCIO DE...

LE GOLE RUPESTRI DELL’APPENNINO MARCHIGIANO, di Aldo J.B. Brilli-Cattarini


Versione digitale dell'articolo: BRILLI-CATTARINI A.J.B., 1972 (1) - Le gole rupestri dell'Appennino Marchigiano (pagg. 7-16). In: Natura e Montagna, 3, Bologna.

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Non v’è persona - anche tra le più sprovvedute e le più insensibili al fascino delle bellezze naturali - che, nel percorrere il tratto entroappenninico delle strade di fondovalle colleganti la costa marchigiana all’interno della Penisola, non abbia almeno una volta sollevato lo sguardo a mirare con rispettosa meraviglia le incombenti rupi alte e scoscese della Gola del Furlo, o di quelle della Rossa, di Frasassi, di Gorgo a Cerbara o di Pioraco, solo per menzionare le maggiori e più note. Fra i tanti notevoli aspetti ancora offerti, pur nel suo generale stato di desolata e progressiva degradazione, dall’Appennino Centrale all’attenzione del naturalista, od anche del semplice amante del bello, si collocano a pieno diritto queste profonde incisioni che in notevole numero tagliano trasversalmente le “quinte” calcaree, associandosi alla moltitudine di forre e burroni solcanti variamente i fianchi dei rilievi montuosi.

Nella multiformità della loro morfologia, strettamente collegata alle caratteristiche geologico-litologiche dei rilievi, si possono empiricamente suddividere le gole dell'Appennino marchigiano (così come quelle di altri settori dell'Appennino calcareo centrale e meridionale) in tre categorie - boscose, semirupestri rupestri - i cui stessi nomi ne qualificano chiaramente le preminenti note distintive, spesse volte sfumanti quasi indistintamente da una categoria all’altra. Se tutte presentano validi motivi di attrattiva, sono certamente le ultime - le rupestri - quelle che più si propongono all’interesse del naturalista e del cultore del paesaggio; non vi è seguace di alcuna disciplina naturalistica, od anche umanistica, che in esse non trovi in maggiore o minor misura occasioni per laboriose ed appassionanti indagini: dal geologo e dal paleontologo allo zoologo ed al botanico, dall’archeologo allo storico, al paesaggista ed al letterato, tutti possono trovare qui larga messe di spunti per ricerche e studi. Non è certo il caso che io stia a dilungarmi sull'altissimo valore assunto dalle gole e forre rupestri nel paesaggio appenninico. E’ cosa fuor d'ogni dubbio il trattarsi di preziosi monumenti naturali di singolare e spesso orrida bellezza (un illustre naturalista marchigiano vissuto tra la fine del ’7oo ed il primo ’8oo li definiva, con termine assai pittoresco, “mirabili e ferocissimi luoghi”!), di incomparabili ornamenti dei panorami montani della regione marchigiana, così come di altre ad essa più vicine o lontane, ed il fatto è talmente appariscente ed ovvio da non poter sfuggire a chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità nei confronti delle bellezze profuse da Madre Natura. Sembra tuttavia che questa sensibilità faccia largamente difetto proprio in coloro che, almeno in teoria, sono - o dovrebbero essere - preposti alla tutela del paesaggio ed alla conservazione gelosa di quegli elementi che più lo qualificano e valorizzano; ma questo è un altro discorso.

Se da una parte è superfluo il dilungarsi sul valore paesistico delle gole rupestri, da un’altra il limitato spazio a disposizione rende impossibile il trattare in questa sede, sia pur superficialmente, di tutti gli altri aspetti che nelle gole stesse si propongono alla nostra attenzione. Ho già fuggevolmente accennato sopra a quanti essi possano essere, e l'elencazione è stata volutamente limitata; si potrebbe scriver a lungo su questioni faunistiche, botaniche, geologiche, paleontologiche, archeologiche, storiche e via di seguito, e per ciascuna di esse vi sarebbe buon luogo ad empire pagine e pagine. Certamente gli aspetti naturalistici più vistosi, complessi ed interessanti - almeno a mio modo di vedere - che qui ci si presentano sono il geologico ed il botanico; trascurando tutto il resto, è a questi due, e soprattutto al secondo, che dedicherò le poche notizie esposte qui di seguito.
 

Note geologiche
Le gole appenniniche, così come del resto buona parte delle forre, hanno origine assai antica; origine da ricercarsi in un complesso di cause non tutte sempre ben individuabili, e certamente il più delle volte complementari fra loro. Molto è stato scritto, e molto vi sarebbe ancora da scrivere sulla genesi e sulla evoluzione morfologica delle gole rupestri, determinate, modellate ed approfondite nel corso di milioni di anni - dai lontani tempi miocenici ai giorni nostri - da una complessa sequenza di fenomeni spesso strettamente collegati alle varie fasi dell’orogenesi appenninica. Fenomeni predeterminanti e concorrenti alla loro formazione furono certamente le ondulazioni assiali delle pieghe anticlinali, le fratture trasversali (spesso complicate da faglie) createsi in dette pieghe sotto le sollecitazioni delle spinte orogenetiche, l'erosione operata dagli antichi torrenti conseguenti instauratisi sui fianchi dei rilievi emergenti progressivamente dai bacini marini miocenici e pliocenici, i fenomeni di carsismo, di corrosione e di evorsione che hanno lasciato impronte tanto evidenti sui fianchi delle gole, ed altro ancora su cui non mi soffermo.

Già ho accennato di sfuggita al fatto che la morfologia delle gole è strettamente legata ai caratteri litologici delle formazioni costituenti i rilievi nei quali esse sono incise, e particolarmente alla loro maggiore o minore erodibilità e corrodibilità. Vediamo infatti che le più tipiche gole rupestri, dalle imponenti pareti subverticali, solcano in massima parte il compatto e tenace calcare massiccio retico-liasico, la più antica fra le rocce visibili nel nostro Appennino calcareo; le meno tipicamente rupestri e le semirupestri incidono invece di norma i calcari più o meno regolarmente stratificati del Giura Inferiore, Medio e Superiore, e del Cretacico Inferiore (pietra còrniola, calcari grigi, verdastri e rossi ammonitici, calcari lastroidi selciferi varicolori e ad aptici, calcare rupestre); le gole boscose sono infine il più spesso scavate entro le formazioni rocciose del Cretacico Inferiore e Superiore, più raramente dell'Eocene Inferiore e Medio (ancora calcare rupestre, e poi marne a fucoidi, scaglia rossa, bianca, rosata, ecc.).

Alcune delle maggiori gole rupestri ci offrono stupendi profili stratigrafici, e costituiscono quindi degli elementi non facilmente sostituibili per lo studio del Mesozoico peninsulare; basti pensare che al Furlo partendo dal fondo della Gola per giungere alla sommità delle culminazioni del rilievo, è esposto un complesso di serie sedimentarie (e forse non solo sedimentarie) calcaree della potenza di circa 800 m, nel quale sono rappresentati i periodi dal Trias Superiore al Cretacico Superiore: una pagina della storia geologica che copre qualche cosa come 90-100 milioni di anni.

Che dire poi delle ricche faune fossili, dei reperti paleontologici mesozoici che in questi luoghi sono stati raccolti e si raccolgono tutt’ora con relativa dovizia, nonché di quelli pertinenti al Quaternario antico, rappresentati questi ultimi per lo più dai resti degli animali abitatori in tempi ormai remoti delle gole e delle caverne aperte nei loro fianchi?

Prima di passare ad argomenti botanici, cedo alla tentazione di scrivere due parole sulla fauna; ciò solo per ricordare la presenza e la nidificazione nelle gole del passero solitario e del codirossone, del picchio muraiolo, della piccola rondine montana e della imponente aquila reale. Ormai scomparso da qualche anno è invece il colombo selvatico (un tempo abbondante al Furlo, a Frasassi ed alla Rossa; prova evidente di quel che valgono in Italia le norme protettive!), e molto probabilmente anche del tutto scomparso è il gufo reale. Si é poi parlato anche recentemente dell’esistenza della lontra nella Gola del Furlo, ma è notizia che merita seria conferma.
 
La flora
Venendo ora al secondo dei due principali aspetti naturalistici prima accennati, quello botanico, è da dire innanzitutto che per il fitogeografo in generale, e per il florista ed il corologo in particolare (per tacere dei cultori di altre branche specialistiche, quali gli ecologi, i fitosociologi, ecc.), le gole e le forre rupestri dell’Appennino calcareo rappresentano delle inesauribili miniere di dati e di preziosi materiali di studio; inesauribili nel senso che non si finisce mai di scoprire in esse cose nuove ed in vario grado importanti. Ciò che si può osservare in questi luoghi è per lo studioso fonte di continua meraviglia e di rinnovato interesse, causa di sempre nuovi ed appassionanti interrogativi; interrogativi che investono non solo le attuali condizioni della flora e della vegetazione appenniniche, ma anche - e forse soprattutto - il loro passato e le fasi evolutive da esse attraversate.

Il discorso che può essere fatto sulla flora delle gole rupestri è non poco complicato e tutt’altro che facile da condurre, nè lo si può semplificare oltre un certo grado se non a scapito dell’esattezza, poiché la complessità di certi fenomeni è tale da renderli spesso di non facile interpretazione. I principali e più appariscenti fra questi fenomeni possono tuttavia essere raggruppati e sintetizzati nel modo che segue, anche se ciò apparirà - come certamente è - eccessivamente semplicistico:

1) una notevolissima ricchezza della flora, spesso contrapposta ad una relativa o sostanziale povertà della vegetazione, e ciò soprattutto nelle gole e nei settori più spiccatamente rupestri;
2) la presenza talora abbondante di elementi floristici rari o rarissimi nella regione marchigiana, o nell’Italia Centrale in genere, talvolta nell'intera Penisola o nell’Italia tutta;
3) una eccezionale convergenza dei più disparati elementi geografici nella composizione del manto vegetale, ove emerge particolarmente la coesistenza di elementi mediterranei e pontici (termofili o xerofili), e di elementi circumboreali, continentali-nordici, talvolta artico-alpini, tendenzialmente microtermi ed oro-ipsofili.
A questi tre fenomeni principali altri se ne affiancano, forse meno appariscenti, tuttavia sempre interessanti ed importanti; ma è giocoforza il trascurarli qui.

Per quanto riguarda la ricchezza floristica, basti pensare che nelle gole maggiori (Furlo, Rossa, Frasassi, Pioraco, Gorgo a Cerbara), su aree che sono sempre notevolmente limitate - pochi ettari, o poche diecine di ettari al più - è cosa da nulla mettere insieme un “catalogo” comprendente un numero di specie e buone sottospecie quasi mai inferiore a 500, ma spesso di non poco superiore; e va anche detto che vi troviamo sì una certa abbondanza di piante comuni, banali ed ubiquiste, senza alcun particolare significato (e di solito queste sono più accentrate nel fondo e nelle parti basse delle gole, ove più intensi sono i fenomeni di antropizzazione), ma rileviamo tuttavia grossi contingenti di specie oltremodo interessanti.

Venendo al secondo dei tre fenomeni prima elencati, è da dire come sia ben nota ai botanici che si sono occupati di questi ambienti l’esistenza nelle gole rupestri appenniniche di stazioni di specie rare o rarissime nel nostro territorio; elencare tutte queste specie non è certo cosa fattibile qui, ché oltretutto ne risulterebbe solo un’arida sfilza di nomi, buona solo per iniziati, e mi limito quindi a ricordarne solo alcune per le quali ritengo valga la pena di rubare un po’ di spazio ad altri argomenti.

Al Furlo, alla Rossa ed a Frasassi esistono le uniche stazioni sin’ora note nelle Marche della Moehringia papulosa, una rara Cariofillacea rupicola, conosciuta solo delle Alpi Marittime, dell'Appennino marchigiano e di quello calabrese; quello del Furlo, ove la pianta fu scoperta dal NARDUCCI nel primo quarto del secolo scorso, è il suo “locus classicus”. A Frasassi si trova l'unica stazione oggi nota (per quanto io ne sappia) nell’Appennino Centrale dell'Hymenolobas pauciflorus, una piccola ed esile Crucifera annua, elemento alpino distribuito principalmente nelle Alpi e Cevenne, con stazioni isolate nella Spagna orientale ed in Calabria. Ancora a Frasassi esiste una delle poche stazioni di Ephedra major note nell’Appennino Centrale; si tratta di una specie assai antica, largamente prequaternaria, avente una distribuzione vasta ed estremarnente frammentata, interessante le Canarie, il Bacino Mediterraneo, l’Asia Anteriore e Centrale. Nella Gola di Pioraco troviamo le uniche stazioni per ora note nella regione marchigiana fisica (stazioni che sono poi le più settentrionali conosciute in Italia) del Chamaecytisus spinescens, una rara e bellissima Leguminosa frutescente, elemento balcanico distribuito nell'Italia centrale e meridionale, nella Jugoslavia occidentale, e forse in Grecia; vederne la fioritura primaverile sulle rupi è spettacolo non facilmente dimenticabile. Ancora a Pioraco esiste un altro elemento balcanico assai raro in Italia, la Frangula rupestris, arbusto della famiglia delle Ramnacee; nel nostro Paese questa pianta è conosciuta con certezza solo dell’Istria e Friuli, e di due località delle Marche, mentre il suo areale principale interessa la Jugoslavia, l'Albania e la Grecia. Al Furlo, a Gorgo a Cerbara, ed alla Madonna del Sasso presso Pergola si trovano alcune delle poche stazioni sin’ora note nelle Marche della Leopoldia tenuiflora, una graziosa Liliacea, elemento pontico-pannonico rarissimo da noi; le stazioni marchigiane - 5 o 6 in tutto - sono per ora le sole conosciute in Italia.

Altre specie più o meno sporadiche nelle Marche o nell’Appennino Centrale in genere, delle quali troviamo stazioni nelle gole, e che val la pena di ricordare, sono: Iberis saxatilis (alla Rossa), Potentilla caulescens (alla Rossa ed a Frasassi), Genista januensis (a Pioraco e San Severino), Genista silvestris subsp. dalmatica (alla Rossa e Frasassi), Pimpinella tragium subsp. lithophila (alla Rossa), Ruta graveolens subsp. divaricata (alla Rossa), Centranthus calcitrapa (a Gorgo a Cerbara, e forse anche alla Rossa e Frasassi), Anthericurn ramosum (a Frasassi), Carex distachya (a Frasassi); e qui sarà bene io mi fermi.

Il terzo dei fenomeni prima accennati è quello che si estrinseca nella convergenza dei più disparati elementi geografici osservabile nel rivestimento vegetale delle gole; fenomeno questo piuttosto complicato, per spiegare il quale occorre chiamare in causa complessi motivi ambientali, e non meno complesse ragioni di storia geologica. Si osserva innanzitutto che nella flora delle gole rupestri è riscontrabile quasi una sintesi di tutte quelle che si trovano nei diversi settori della regione marchigiana: litoraneo, subappenninico ed appenninico. Una indagine più approfondita rivela poi la presenza di quattro notevoli componenti, emergenti sugli altri per cospicuità e consistenza.

Uno di questi componenti è costituito da elementi mediterranei, ossia da piante che di norma nella nostra regione sono oggi prevalentemente distribuite nella fascia litoranea e sublitoranea, soprattutto dal M. Conero in giù. Si tratta di piante termofile, ed alcune fra esse sono caratteristiche della più genuina macchia mediterranea: così il Corbezzolo, il Tino, la Fillirea e lo Smilace. Il componente mediterraneo è notevolissimo nelle gole, e ciò da un lato non meraviglia, poiché la fascia basale dell'Appennino calcareo è sempre molto ricca di questi elementi, ma è però certo che in esse il loro numero è assai superiore a quanto non sia altrove; il ragionamento necessario a spiegare i motivi più profondi di questo fatto è troppo lungo per essere esposto qui, rifacendosi esso a particolari di storia geologica e di paleogeografia che in qualche caso ci portano indietro sino al Pliocene, se non addirittura alla fine del Miocene.

Un secondo componente riunisce gli elementi pontici o pontico-pannonici, in qualche caso mediterraneo-pontico, elementi che nella regione marchigiana sono solitamente distribuiti in maggior misura lungo la fascia basale appenninica e sub-appenninica. Si tratta di specie più o meno xerofile, spesso steppiche (come il Chrysopogon gryllus, la Melica transsilvanica, la Stipa pulcherrima), e di questo componente fa parte anche la rara Leopoldia tenuiflora cui ho accennato in precedenza, così come gli Aster amellus e linosyris, l'Allium saxatile, la Lactuca perennis e molto d'altro ancora. Costituito dagli elementi illirici (o balcanici che dir si voglia e che in certi casi sarebbe forse meglio denominare “periadriatici”) è invece il terzo componente, la cui notevole consistenza numerica non meraviglia poiché gli elementi illirici abbondano in tutto l'Appennino calcareo centrale e meridionale; tuttavia nelle gole essi sono assai più concentrati che non altrove, anche perché a quelli caratteristici del piano basale si assommano gli ipsofili, che qui scendono a quote insolitamente basse. Fanno parte di questo componente i già ricordati Chamaecytisus spinescens, Frangula rupestris, Ruta divaricata, Genista silvestris subsp. dalmatica, e poi Rhamnus fallax, Centaurea rapestris, Globularia meridionalis, ecc.

In un quarto componente assai eterogeneo, numericamente forse non molto consistente, ma nonperaltro assai significativo, si possono infine artificiosamente riunire le specie microterme a distribuzione circumboreale, continentale-nordica, più raramente alpina od artico-alpina, od anche sudeuropeo-montana. Ricordo fra esse il già citato Hymenolobus pauciflorus, e poi, fra le più vistose, la Potentilla caulescens, le Saxifraga paniculata e callosa, il Rhamnus pumilus, e faccio grazia del resto.

Esaminando la flora delle gole rupestri sotto altri punti di vista emergono altri fatti: la presenza di numerosi endemismi appenninici o centro-mediterranei, la presenza di non pochi relitti prequaternari (fra essi le prima ricordate Ephedra nebrodensis, Moehringia papulosa, Iberis saxatilis), quella di un folto gruppo di specie ipsofile che scendono qui a quote insolitamente basse, e vi si mantengono in virtù di particolari situazioni microambientali, microclimatiche (a quote di 150- 175 m troviamo nelle gole piante che nell'Appennino vivono solitamente al di sopra dei 1000 o 1500 m, come la Sesleria apennina, il Trisetum villosum, la Carex macrolepis); ancora, la presenza di specie che generalmente sono caratteristiche abitatrici dei litorali sabbiosi o delle steppe litoranee (come il Lagurus ovatus o l'Euphorbia peploides), oppure quella di specie nemorali sciafile che qui si rifugiano nelle anfrattuosità rocciose fresche ed umide; e si potrebbe continuare per un bel po'.

Certamente è cosa singolare e sorprendente il vedere il Corbezzolo (genuina espressione della macchia mediterranea), la Fillirea, il Fico selvatico, lo Smilace, la Coronilla valentina, la Fumaria capreolata, e tante e tante altre specie tipicamente mediterranee nel senso più stretto del termine, convivere con piante che nell’Appennino - e del resto anche altrove - sono abitatrici di montagna alta o medio-alta, come l’Iberis saxatilis, la Potentilla caulescens, l’Hymenolobus pauciflorus, e che ivi spesso caratterizzano particolari associazioni erbacee ipsofile, come la Sesleria apennina o laCarex macrolepis. Si invoca a spiegazione di questi fatti anomali l'esistenza di microambienti, di condizioni microclimatiche che consentono la coesistenza di specie con esigenze ecologiche tanto diverse: le specie mediterranee e pontiche, e le termofile e xerofile in genere, trovano negli ambienti rupestri calcarei delle gole (asciutti od aridi, riparati e caldi) condizioni adatte a soddisfare le loro particolari preferenze; di contro, le specie microterme (ipsofile od altro che siano) trovano nei recessi delle gole stesse ombra ed umidità sufficienti a compensare la loro esigenza di temperature poco elevate. Tutto questo sta bene, tuttavia soddisfa solo in parte i nostri interrogativi, poiché spiega sì la possibilità della coesistenza di tutte queste piante, ma non chiarisce il perché della loro presenza qui, tanto più che molte di esse mancano completamente oggigiorno nei territori circostanti, anche là ove si verificano le condizioni ottimali per la loro vita. Si deve allora prendere in considerazione ben altro, e riandare ai fenomeni climatici verificatisi dal Pliocene ai giorni nostri, alle grandi glaciazioni pleistoceniche ed ai periodi interglaciali, alle oscillazioni climatiche del Postglaciale, alle massicce migrazioni verso Sud delle specie microterme, alternate alle forse un po' fiacche risalite verso Nord delle specie termofile, ed a molti altri fatti del passato che non sto qui a ricordare. Certo si è che nei settori rupestri della fascia basale appenninica, e nelle gole rupestri in particolare, è rimasta traccia evidente di tutte le flore diffusesi nell'Italia centrale durante i vari tempi dal Pliocene in poi; quindi, oltre a procurarci importanti dati sulla distribuzione ed ecologia di certe specie molto interessanti, la flora delle gole rupestri ci fornisce una notevole quantità di preziose testimonianze di fatti paleogeografici e paleoclimatici, ci dà ulteriori e particolari conferme della successione e della intensità delle oscillazioni climatiche quaternarie alle nostre latitudini, ci fornisce indicazioni sull'antica distribuzione di varie specie e sulla configurazione dei territori da esse abitati, e via di seguito. Il discorso potrebbe essere ancora molto lungo, tanto lungo che è meglio troncarlo a questo punto.
 
Aspetti vegetazionali
Qualche cenno meritano anche gli aspetti della vegetazione. Se si tien presente che la quasi totalità delle gole ha un asse direzionale trasversale a quello dei rilievi in cui è incisa, e quindi un generale andamento W-E, si osserva che esse hanno sempre un versante (sinistra idrografica) esposto a mezzogiorno, mentre l’altro (destra idrografica) guarda a settentrione; a tale opposta esposizione consegue logicamente una differente situazione ambientale, e quindi una diversa impronta vegetazionale. Nei versanti esposti a mezzogiorno (che sono sempre i più altamente dirupati, ed anche i più poveri di copertura vegetale) troviamo cenosi arboreo-arbustive improntate ai caratteri del Quercetum ilicis (boscaglie termo-xerofile con abbondanza di sclerofille sempreverdi, ad aspetto di pseudo-macchia, o più raramente di quasi vera macchia mediterranea), oppure a quelli del Quercetum pubescentis (boscaglie xerofile di Roverella), il più spesso con larga interferenza dei due tipi. Le ripide chine aride e sassose sottostanti alle pareti rocciose ospitano qui il più delle volte cenosi erbacee riferibili al Brometum. Nei versanti esposti a settentrione (quasi sempre meno dirupati, e sempre con manto vegetale più ricco) si nota una assai minore termofilìa e xerofilìa, una accentuata tendenza al bosco mesofilo, per lo più rientrante ancora nel Quercetum pubescentis, talvolta avvicinantesi all’Orno-Ostryetum carpinifoliae, meno frequentemente - e solo nelle gole più interne - con accostamenti al Buxo-Quercetum. Lungo le sponde dei corsi d'acqua percorrenti il fondo delle gole si insediano qua e là associazioni dell’ordine Populetalia, per lo più rappresentate da saliceti; negli stessi luoghi non mancano cenosi rientranti nella classe Phragmitetea, e ciò soprattutto nella Gola del Furlo, ove l’insediamento del Phragmitetum è conseguenza diretta delle modificazioni d’ambiente apportate dalla creazione del bacino idroelettrico. Sulle rupi dei due versanti non mancano subassociazioni riferibili al Parietarietum ramiflorae (e ad esse partecipa talora anche la rara Moehringia papulosa della quale ho scritto in precedenza), ed in qualche caso penso si possa fondatamente parlare di un Adiantetum, o di un Asplenietum, od anche di qualche altra cosa ancora.

Tuttavia nel complesso, salvo le prime accennate maggiori o minori caratterizzazioni vegetazionali generali, direi che è assai difficile - se non addirittura imprudente - approfondire il discorso sulle associazioni vegetali nelle gole rupestri, poiché una parte non piccola delle piante che in esse vivono vi si trova con caratteri che, per un verso o per l’altro, potremmo definire “relittuali”. Si possono vedere qui le specie più significative di una infinità di fitocenosi normalmente rappresentate negli orizzonti mediterraneo e submediterraneo del piano basale appenninico, oppure nel piano montano, o addirittura in quello cacuminale, ma le relative associazioni sono a mio avviso ben difficilmente individuabili, o non lo sono affatto. Troviamo assai spesso, ed anche con abbondanza, la Sesleria apennina, ma chi avrebbe mai l’ardire di parlare di Seslerietum apenninae nelle gole? Vediamo spesso sulle rupi la Potentilla caulescens e qualche altra specie che viene ritenuta guida delle associazioni dell’ordine Potentilletalia caulescentis, ma ammettere la presenza qui di queste ultime sarebbe a mio avviso del tutto fuori di luogo. I fitosociologi vogliano perdonare il mio scetticismo.

La tirannia dello spazio non consente che io mi dilunghi oltre su di un argomento che, per essere trattato appena convenientemente in tutti i suoi aspetti, abbisognerebbe di diecine e diecine di pagine. Sarebbe opportuno dedicare qualche pagina anche al problema della tutela e della conservazione di questi ambienti, preziosi per la Scienza ed impareggiabile ornamento del paesaggio appenninico, ambienti che troppo spesso vengono degradati al rango di aree di indiscriminato sfruttamento industriale, con l'apertura di cave di pietra deturpanti e distruttive (come ben può constatare chiunque si trovi a passare per la Gola della Rossa), od a quello di palestre per balorde acrobazie di forestale insipienza (ne sia un esempio la Gola del Furlo). Ma un'esperienza pluridecennale, e la constatazione degli effetti e reazioni che conseguono al far certi discorsi in questo Paese, mi inducono ad affermare che ogni parola spesa in tal senso è del tutto sprecata; questo può sembrare puro pessimismo, ma è solo un semplice accertamento della realtà dei fatti.
 

NOTE
(1) Sovrintendente ai Centri di Ricerca EFI- IFRS nel Bacino Adriatico, Pesaro.


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 07.09.2010
    Ultima modifica: 16.07.2012

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