Opere specialistiche
STORIA DI UN CIOTTOLO E DEGLI APPENNINI - parte prima, di Alberto Ferretti
Di questo lavoro esiste solo la presente stesura digitale.
Citazione bibliografica: FERRETTI A., 2012 - Storia di un ciottolo e degli Appennini. In: "La Valle del Metauro - Banca dati sugli aspetti naturali e antropici del bacino del Metauro", http//www.lavalledelmetauro.it. Ed. Associazione Naturalistica Argonauta e Comune di Fano, Fano (PU).
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a Enea e a Isaia, cercatori di pietre preziose
Capitolo I
Don Albertino raccolse il ciottolo dal terreno, lo pulì alla meglio e lo riguardò incredulo, ma felice.
"Granito" disse. Provò a scheggiarlo battendolo contro un masso più grosso, ma non ottenne alcun risultato.
Il ciottolo era molto resistente. Allora lo lavò in una pozza d'acqua e i granuli del ciottolo si videro un po' meglio.
"Questo minerale bianco opaco è feldspato," disse tra sé "quest'altro è quarzo, questo scuro è sciorlo. Questo non è un granitello: è un vero granito”.
Don Albertino cominciò a guardare nei dintorni. Era venuto nel Fosso della Castelluccia per avere una conferma sul ritrovamento di altri ciottoli che gli erano stati portati da Nicola Fiorani di Bellisio, frazione di Pergola.
Lavorando i propri campi, Nicola aveva trovato quegli strani sassi, con certe venature varicolori che suscitarono il suo interesse.
"Forse è oro o argento" pensò Nicola. "Devo farli esaminare da qualche professore".
Si ricordò che nel Monastero di Fonte Avellana viveva un abate che studiava le piante del M. Catria per scoprirne le proprietà medicinali o industriali. Probabilmente sapeva qualcosa anche di pietre preziose.
Nicola fece in modo che recapitassero a Don Albertino i sassi che aveva raccolto.
Qualche tempo dopo don Albertino fece vedere quei ciottoli all'ispettore Gualtieri che visitò (1) il M. Catria per ispezionare i boschi e le risorse minerarie della montagna, e successivamente, nel 1811, ai professori Bodei e Brignoli che stavano raccogliendo notizie sulle risorse naturali di tutto il dipartimento del Metauro.
Un altro studioso, l'abate Cassini di Fabriano, mostrò a don Albertino un ciottoletto raccolto nei pressi di S. Costanzo. Quello però sembrava un granitello, non un vero granito.
La differenza era sostanziale. Don Albertino s'accorse che il ciottolo dell'abate Cassini era piuttosto tenero e poco compatto, la frattura si presentava smorta, non brillante e vetriforme come quella di un vero granito. Certi granuli assomigliavano al feldspato, ma non erano dei veri cristalli distinti. E poi c'era un cemento calcareo e questo tagliava la testa al toro. Quello dell'abate Cassini era granitello.
I ciottoli di Nicola, invece, erano tutt'altra cosa.
Per avere una conferma delle sue analisi ritenne opportuno parlarne con don Silvestro Marcellini, abate olivetano del Convento di Pierosara, vicino a Fabriano, celebre studioso di rocce e minerali, che qualche anno prima aveva pubblicato un trattato orittologico.
Don Silvestro aveva nella sua collezione un ciottolo di gneiss proveniente dai dintorni di Cantiano e più precisamente dai campi di un certo Cancelli.
Don Albertino non sottovalutò il fatto che questi ciottoli di granito e di gneiss erano stati raccolti negli opposti versanti del M. Catria.
Doveva andare assolutamente nel Fosso della Castelluccia per condurre proprie indagini e doveva far presto perché si era ai primi di settembre e in inverno i fossi sono poco praticabili.
Cominciò a prendere contatti con Nicola Fiorani, ma le cose erano un po' cambiate. Nicola era diventato sospettoso, temeva che qualcuno avrebbe potuto sottrargli il suo tesoro e perciò era restio ad indicare esattamente il punto di ritrovamento delle sue preziose pietre. Don Albertino dovette faticare un bel po' per persuadere Nicola che non si trattava di oro o argento ed alla fine, il 10 settembre 1812, poté recarsi nel sito preciso del Fosso della Castelluccia dal quale provenivano i ciottoli che aveva esaminato.
Era accompagnato da Nicola, nel frattempo diventato più cortese, che lo condusse su un colle coltivato a seminativi e vigneti. Il substrato roccioso del colle è costituito da un'alternanza di marne ed arenarie. In uno squarcio aperto dalle acque selvagge tra detriti argillosi, marnosi e arenacei comparivano però pezzi di granito e di gneiss con laminette di mica dai colori argentei o ramati che avevano fatto pensare all'oro ed all'argento. Purtroppo non si riuscì a vedere il substrato dal quale provenivano quei pezzi e pertanto non fu possibile accertarsi se si trattasse di strati o di ammassi.
Don Albertino ne raccolse parecchi campioni che portò nel suo laboratorio di Fonte Avellana.
Percosse i campioni con l'acciarino e ne trasse scintille. Allora fece levigare qualche ciottolo per svolgere più accurate indagini. Non si vedeva materia calcarea, né tracce di organismi fossili. L'analisi dei minerali rivelò la presenza del quarzo, del feldspato e dello sciorlo: tutto ciò dimostrava che si trattava di un granito. Lo gneiss, invece, era ricco di quarzo e di miche. La conclusione di don Albertino fu che si trattava di un granito primario o granito vero.
Dov'era l'ammasso roccioso dal quale provenivano quei ciottoli?
Per quanto sapeva, non vi erano affioramenti di granito nel massiccio del M. Catria.
Se non esistevano affioramenti in superficie, ciò però non voleva dire che non potessero esistere ammassi granitosi più all'interno, nascosti da detriti e da altre rocce.
Il granito era classificato come una roccia primitiva e cioè formatasi all'atto della creazione della Terra.
"Vediamo un po’ " disse don Albertino. "La vetta del Catria è fatta di strati calcarei ricchi di corni d'Ammone, di nautili e d’altri organismi allo stato fossile. Orbene le rocce stratificate che contengono fossili sono sicuramente di seconda formazione.
Sui versanti del M. Catria affiorano poi degli scisti neri, bituminosi, che quando sono bruciati emanano un odore nauseante.
Allora il granito e lo gneiss devono essere nascosti alla base della montagna”.
Don Albertino si recò nella ricca biblioteca dell’abbazia. Cominciò a consultare il trattato di mineralogia di Brochant, riguardò poi il libro in cui Saussure aveva descritto le montagne alpine, l'opera dell'abate Palassau sui minerali dei Pirenei e il trattato di Buffon sulla storia naturale della Terra.
Tutto concordava. Il M. Catria doveva essere una montagna che, almeno in parte, risaliva al momento della creazione della Terra. Il granito e lo gneiss corroboravano quest’ipotesi ed il fatto che gli scisti bituminosi affioravano nei versanti del M. Catria era una ulteriore conferma, secondo l'opinione espressa da Buffon.
Questi scisti non sono presenti solo nel M. Catria, ma anche in quelli vicini: nel M. Aiate di Pergola, nel monte di Fenigli, nel M. Cucco dove se ne trova in gran quantità al Cupo, nel M. Sanvicino, nel Monte della Rossa ed in quello di Pierosara e giù giù negli altri Appennini del Piceno.
La costruzione dell'intera montagna si completò poi con una seconda fase in cui si formarono gli strati calcarei che ne rivestono la vetta.
"Un tempo" pensò don Albertino "gli Oceani, il Mare Mediterraneo e l'Adriatico erano un unico mare che ricopriva il globo terrestre. È questo è certo! Altrimenti non si potrebbe spiegare la presenza dei nautili, dei corni d'Ammone e dei pesci negli strati rocciosi delle montagne appenniniche. Ma al di sotto delle acque esistevano le catene montuose primigenie fatte di granito e di gneiss che furono avvolte dal deposito dei materiali prodotti dalla distruzione delle conchiglie. Il mare poi dovette ritirarsi per far emergere la catena appenninica. Col tempo l'azione dei fiumi e dei torrenti mise allo scoperto gli ammassi granitici situati all'interno”.
"Non è importante il fatto che troviamo oggi il granito e lo gneiss in forma di ciottoli, ciò che potrebbe far pensare ad una terza fase nella formazione della montagna, ma è la composizione stessa del granito e dello gneiss e l'assenza in essi di materia calcarea che confermano l'origine primaria”.
"Non è inverosimile, dunque, che tutta la catena appenninica del Piceno sia formata da montagne granitiche e primitive”. La congettura acquistava sempre più una sua consistenza.
"Questa è una grossa novità scientifica e probabilmente i naturalisti solleveranno un sacco di obiezioni" pensò don Albertino. "Bisogna prevenire le obiezioni".
Nei giorni seguenti passò molto tempo in biblioteca.
L'osservazione di Bowles che dall'alterazione dei graniti primitivi avessero origine graniti secondari fatti di ciottoli trasportati dai corsi d'acqua nelle loro vallate poteva essere facilmente superata perché questo fatto supponeva l'esistenza di ammassi rocciosi di granito e di gneiss proprio nei dintorni di tali depositi.
Alla fine delle sue ricerche bibliografiche don Albertino concluse che gli potevano sollevare queste obiezioni:
1) tutte le catene montuose sono interiormente granitiche perché tale è il nucleo della Terra;
2) il M. Catria è di seconda formazione perché gli strati rocciosi che lo costituiscono sono variamente inclinati, da orizzontali a verticali;
3) i ciottoli non sono di vero granito, ma di arenarie ben cementate.
"Alla prima obiezione" argomentò don Albertino "posso rispondere osservando che ho raccolto i miei ciottoli in un colle situato in vicinanza della catena del Catria. Dunque, o questi ciottoli si sono formati nello stesso luogo, oppure devono essere rotolati lungo i fianchi del monte per cui non possono avere alcuna relazione con il nucleo granitico della Terra”.
"La seconda obiezione vale solo per gli strati calcarei del M. Catria, ma la loro forte inclinazione non esclude la possibilità che vi siano degli ammassi granitici”. Don Albertino riguardò meglio i suoi appunti e ritrovò un brano del Saussure in cui questo studioso sosteneva che la forte inclinazione degli strati, che possono anche raggiungere la verticale, è un elemento da tenere in gran considerazione perché le montagne che hanno di siffatti strati sono quelle più vicine alle primitive. "Ecco un buon argomento a sostegno della mia congettura" pensò don Albertino.
"Vediamo ora la terza. I granitelli o arenarie sono molto comuni nelle nostre montagne, ma essi hanno sempre un cemento che manca totalmente nei miei ciottoli e talvolta contengono anche conchiglie fossili. Questa obiezione non regge ad una accurata analisi dei miei campioni. Del resto anche il signor Vito Procaccini Ricci, dotto naturalista, ha confermato l'ottima qualità di questi graniti”.
Forte di queste sue considerazioni, don Albertino prese un bel foglio di carta bianca ed iniziò a scrivere le sue Riflessioni sul granito e lo gneisso osservate alle basi del Catria, indirizzate all'Imperiale Accademia dei signori Georgofili di Firenze.
Capitolo II
Targioni Tozzetti aveva studiato tutti gli aspetti naturalistici della sua regione e distingueva le montagne primitive, caratterizzate da strati rocciosi inclinati, dalle colline, composte invece da strati più o meno orizzontali.
Giovanni Arduino migliorò questa classificazione riconoscendo quattro gruppi (o ordini) successivi di formazioni rocciose che avevano avuto origine in tempi e in circostanze assai diverse. Egli considerava primigenie le rocce quarzose e quelle micaceo-quarzose perché le aveva trovate sempre alla base delle sue montagne nel Veneto. Questo ordine di rocce, inoltre, era spesso ricco di minerali metalliferi, mentre mancavano le tracce di organismi fossili. Questi erano invece presenti nel gruppo di rocce sovrastanti, quasi sempre calcari, che prese il nome di ordine secondario. Il disfacimento delle formazioni primarie e secondarie aveva dato origine alle colline terziarie caratterizzate da formazioni rocciose che contenevano fossili simili agli organismi attuali. Il quarto ordine era rappresentato dalle falde di detrito, dalle alluvioni fluviali e dai sedimenti marini attuali. Le lave antiche o basalti erano assimilate al terzo ordine.
Negli ultimi decenni del Settecento acquistò una notevole fama di studioso e di maestro di scienze mineralogiche il tedesco Werner che insegnava geognosia nell'Accademia mineraria di Freiberg in Sassonia. Egli aveva classificato le rocce in più categorie ed aveva attribuito a ciascuna di esse un valore cronologico sulla base della loro natura petrografica. I graniti e i porfidi, gli gneiss, gli scisti e i serpentini erano classificati tra le rocce più antiche. Fra queste e i calcari (che Bellenghi attribuiva alle rocce secondarie), Werner aveva posto delle rocce di transizione. Il quarto gruppo comprendeva i depositi detritici più recenti.
Secondo Werner tutte queste rocce si erano formate in un ambiente acqueo e l'inclinazione degli strati, come noi li vediamo negli affioramenti, dipendeva dalla loro originaria giacitura lungo i versanti dei rilievi sottomarini.
Per spiegare l'origine della lava eruttata dai vulcani, Werner, che rifiutava l'esistenza di un nucleo terrestre allo stato fuso, aveva supposto che si trattasse di basalto fuso dal calore prodotto per combustione di giacimenti di carbon fossile e di bitume sottostanti al basalto stesso. Gli scisti, l'ardesia e le argille erano il risultato del riscaldamento delle rocce che ricoprivano i carboni ardenti. All'inizio tutta la Terra era avvolta da un unico oceano che in seguito cominciò a decrescere facendo emergere le montagne. Da questa teoria i seguaci di Werner presero il nome di nettunisti (2). Una delle maggiori obiezioni alla teoria di Werner era proprio basata sulla notevole quantità d'acqua che doveva essersi ritirata per far emergere le catene montuose. Orbene, dov'era finita quest'acqua? I nettunisti non sapevano dare risposte soddisfacenti.
Un geologo italiano, Lazzaro Moro, aveva proposto, prima di Arduino e di Werner, un'interessante teoria per spiegare l'origine delle catene montuose. Queste erano state prodotte dal sollevamento delle formazioni rocciose deposte nei mari. La causa del sollevamento risiedeva nei complessi fenomeni magmatici che avvengono all'interno della Terra di cui i vulcani rappresentano un evento ben noto a tutti.
Agli inizi dell'Ottocento Scipione Breislak, un eminente geologo italiano, diffuse invece in Italia le nuove teorie geologiche proposte dall'inglese Hutton, riprendendo anche quelle di Lazzaro Moro. Ai seguaci di questa seconda teoria fu dato il nome di plutonisti (3).
Anche i plutonisti pensavano che il granito fosse una roccia primitiva che aveva avuto origine da un magma fuso (così come le lave vulcaniche), ma raffreddatosi nell'interno della crosta terrestre.
Capitolo III
Le Riflessioni sul granito di don Albertino furono pubblicate a Macerata nell'estate del 1813. La novità della scoperta scientifica fece esaurire rapidamente l'opuscolo tanto da sollecitare una ristampa.
La scoperta di quelle rocce e di quei minerali mai descritti in precedenza non aveva solo un valore scientifico, ma avrebbe potuto portare sicuri vantaggi all'economia del territorio. Per questi motivi, nel 1819 fu curata una nuova edizione dell'opera dal titolo Fossili del Catria e monti adiacenti.
Fu aggiunta anche la corrispondenza su questi fatti naturali tra Bellenghi ed altri studiosi ed anche le lettere di autorevoli personaggi sollecitati a realizzare interventi economici a favore delle popolazioni residenti nel distretto catriense. Per difendere la sua lealtà scientifica e la veridicità delle sue scoperte don Albertino ritenne doveroso di riportare non solo tutta la corrispondenza concernente l'argomento, ma anche d’indicare gli archivi in cui tali documenti erano conservati. I professori Bodei e Brignoli, docenti nel Liceo di Urbino, per incarico ricevuto dalle autorità amministrative, fecero un'escursione sul M. Catria e riferirono i risultati delle loro indagini in due relazioni del 1812 e 1813.
Probabilmente essi videro i ciottoli che aveva donato Nicola Fiorani (perché don Albertino non aveva ancora pubblicato le Riflessioni), ma in precedenza avevano visto altri ciottoli simili a quelli. Infatti Domenico Reali aveva raccolto a Fiorenzuola di Focara una "lava con anfigeni o leuciti" ed inoltre una "lava sparsa di pirosseni e augite": la prima ricordava quella descritta da Breyslak, la seconda invece ricordava il porfido-masegna descritto da Da Rio (4).
Bodei e Brignoli ritenevano che tali materiali fossero dei residui della lavorazione di massi rocciosi provenienti dai Colli Euganei e trasportati nella nostra regione dai Romani per costruire la via Flaminia.
Bodei, inoltre, aveva anche insinuato che i ciottoli visti a Fonte Avellana fossero di sienite o granitello e di gneiss rotolati dalle acque.
Don Albertino rispose per le rime ed accusò Bodei di errori di memoria. Bodei aveva confuso i ciottoli del Catria con quelli che gli aveva mostrato il professor Canali, ossia dei veri granitelli, come aveva potuto constatare Don Albertino stesso. In effetti il professor Canali aveva mostrato a Bodei e Brignoli dei ciottoli di serpentina verde e di supposto granito raccolti nel Metauro e la loro origine fu attribuita all'esistenza di terreni primitivi esistenti nel dipartimento in qualche parte ancora ignota. A sostegno delle sue affermazioni don Albertino riferì che un campione dei ciottoli di granito era stato donato al museo di mineralogia dell'archiginnasio della Sapienza di Roma dove insegnava il professor Carpi. Anche Gualtieri, ispettore delle miniere del regno italico e dell'impero francese, che aveva visitato l'Avellana per ispezionare i boschi ed i prodotti naturali del Catria aveva esaminati quei ciottoli concordando con don Albertino sulla loro origine.
Il professor Canali, come Bellenghi, riteneva che il Catria ed il Furlo racchiudessero dei graniti, anche se il professor Spadoni era decisamente contrario a tale ipotesi.
Canali supponeva che gli Appennini, i quali hanno un'altezza inferiore alle Alpi, quando furono ricoperti dalle acque marine subirono un maggior deposito di sedimenti calcarei; di conseguenza le rocce primitive dovevano essere ancora nascoste e per questo motivo gli Appennini erano considerati di seconda formazione. Ma qua e là in tutto il bacino del Metauro si possono raccogliere ciottoli di graniti o di porfidi.
"Sarebbe interessante" scrisse Canali a don Albertino "misurare le quote più basse in cui nel M. Catria appaiono le rocce d'origine marina come accade, ad esempio, in Val d'Urbia e all'Isola Fossara e calcolare la differenza d'altitudine tra queste località e il Fosso della Castelluccia dove furono raccolti i ciottoli di granito”.
Canali riferì inoltre di possedere un ciottolo di gneiss di color argentino verdastro raccolto nei dintorni di Cantiano ed aggiunse che tali rocce sono la spia dei graniti.
Capitolo IV
La lettera del principe Pietro Odescalchi colmò di gioia don Albertino. "La Società dei Collaboratori del Giornale Arcadico" rilesse don Albertino "avendo in considerazione il merito letterario che sì La distingue, desidererebbe fregiare del suo nome il Giornale medesimo, ponendolo nell'elenco dei collaboratori corrispondenti”.
Don Albertino prese carta e penna e rispose subito accettando con gratitudine.
"Collaboratore del Giornale Arcadico" ripeteva congratulandosi. "E vogliono subito degli articoli…Bene, bene. Posso inviare l'articolo sui programmi dell'Accademia Parigina e posso cominciare a scriverne un altro sulle ultime ricerche che ho fatto nello scorso autunno sul M. Catria”.
Inviò poco dopo i due articoli progettati alla direzione del Giornale. Il primo che trattava dei programmi dell'Accademia Parigina fu pubblicato quasi subito nel numero di marzo. Il secondo invece, dedicato alla scoperta di nuovi minerali e rocce del Catria, passavano i mesi, ma non compariva.
"Che cosa sarà successo? Ormai sono passati parecchi mesi e non mi fanno sapere nulla”.
Don Albertino cominciò ad indagare. Seppe che il suo articolo non era stato ancora pubblicato perché un "censore" lo aveva giudicato in malo modo con una critica malevole e ne aveva pertanto sconsigliato la pubblicazione.
Don Albertino ottenne dalla direzione del Giornale la recensione critica del censore. Era costui un professore di mineralogia dell'archiginnasio della Sapienza, che don Albertino conosceva molto bene.
"Come mai" si chiedeva don Albertino "una persona che ho sempre stimato, che ho sempre tenuto in considerazione, con la quale ho discusso il mio lavoro sul granito del M. Catria prima di ripubblicarlo, che ho incontrato a Roma tante volte, mi tratta ora così?" Don Albertino era sconsolato.
"Avrebbe potuto discutere con me la questione quando gli donai i campioni di granito per il museo dell'archiginnasio. Abitiamo nello stesso quartiere e poteva invitarmi a casa sua per parlarne a quattr'occhi. Passi per la critica alle questioni mineralogiche, ciò è normale, ma insultarmi di mancare di logica e di raziocinio proprio non lo sopporto”.
"Io mancherei di buon senso…io mancherei di raziocinio…Occorre subito una risposta, anche a costo di pubblicarla a mie spese”.
Nell'articolo che era stato respinto don Albertino riferiva di avere scoperto dei filoni di serpentino nelle vicinanze della Madonna del Sasso ed anche sul versante opposto del monte lungo la strada che da Isola Fossara conduce a Frontone.
Gli studiosi di mineralogia ritenevano che il quarzo fosse tra i minerali formati per primi con le rocce più antiche. In seguito queste rocce, per l'azione del calore terrestre e per l'azione delle acque, furono alterate e disgregate in piccoli frammenti o in polvere. In quei tempi antichissimi queste particelle, a loro volta, furono ricomposte per azione delle acque in nuove rocce quali i graniti, i porfidi, i serpentini.
"Il serpentino, dunque, è una roccia composta da una pasta di quarzo, di feldspato e di sciorlo derivati dalla materia primitiva con la quale il Creatore formò le prime montagne. Così sostiene anche Buffon nel suo trattato sui minerali. Allora se io trovo dei filoni di serpentino nelle vicinanze del M. Catria, è molto probabile che ci siano anche degli ammassi di granito e di gneiss anch'essi composti, ma in proporzioni diverse, di quarzo, di feldspato e di sciorlo. Ecco dunque un'altra conferma della presenza del granito nel M. Catria" pensò don Albertino.
"Non è possibile che pezzi di granito, di gneiss e di serpentino siano stati trasportati fin qui dalle Alpi per opera di inondazioni. È troppo grande la distanza e vi sono troppi ostacoli. A rigor di logica tali rocce devono essersi formate nel luogo stesso ove esistono" concluse don Albertino.
"È come dire che tutto il granito dell'isola d'Elba sia stato costruito con i detriti di catene più antiche trasportati da diluvii. Ma allora qualsiasi catena montuosa potrebbe avere una tal origine. E dove sarebbero queste catene?"
"Come si può spiegare inoltre la presenza d’ardesie a Rocca Bajarda, all'Isola Fossara e in Val d'Urbia? Non sono forse usate come pietre da rasoi, in particolare quelle delle cava del Taglio vicino a Scheggia? Tutti gli studiosi, tra i quali Buffon, asseriscono che l'ardesia, gli scisti e le argille avvolgono le montagne primitive. Dunque" concluse don Albertino "all'interno del M. Catria c'è sicuramente del granito”.
Nella cosiddetta ardesia della cava del Taglio don Albertino aveva trovato anche dei fossili che aveva classificato come ammoniti, conchiglotipoliti, ichitopoliti, ortoceratiti. Tutti questi organismi indicavano che l'ardesia era, un tempo, un fondo di mare.
La cava del Taglio rivelò altre cose interessanti, per esempio la presenza di minerali di rame.
Don Albertino era molto preoccupato per le pessime condizioni economiche degli abitanti del Catria e cercava in ogni modo di poter individuare delle risorse naturali che potessero elevare le loro condizioni di vita. Era stata proprio questa la motivazione per le sue ricerche sulle sostanze coloranti da estrarre dalle piante.
La presenza del rame poteva essere veramente utile e dedicò gran parte delle sue ricerche al ritrovamento di questo minerale. Per questo motivo segnalò ai prefetti ed alle altre autorità amministrative tutti i siti ove ritenne che esistessero dei minerali di rame ricevendo numerose attestazioni di riconoscenza. A volte però il desiderio di poter giovare al progresso dei popoli e dello Stato portò don Albertino ad esagerare l'importanza economica delle sue scoperte.
"Non sappiamo di qual vantaggio possano essere ai popoli ed allo Stato le scoperte annunciate dall'Autore": così cominciava la critica del censore, signor D.P.C., professore di mineralogia nell'archiginnasio della Sapienza in Roma. Le sue considerazioni non erano solo severe, ma spesso aspre, a volte ridicoleggianti.
"Ma come?" si chiese stupefatto don Albertino "Dobbiamo importare rame dall'estero e non sono importanti le miniere che ho segnalato?"
La censura riguardava in modo particolare l'esistenza del granito nel M. Catria la cui presenza, secondo D.P.C., era riconducibile al trasporto di ciottoli provenienti dalle Alpi per opera di qualche grande cataclisma della Terra.
"Sì! Se tra le Alpi e il Catria non ci fossero ostacoli. E questo glielo avevo già spiegato!" ricordò don Albertino.
"Spallanzani e Spadoni sostengono che il granito può essere presente in tutta la catena appenninica. Anche questi studiosi non sarebbero dei geologi di buon senso? Ma chi si crede d’essere questo presuntuoso signor censore!" sbottò don Albertino.
"Qui critica anche il mio raziocinio. Io avanzo un'ipotesi, un'opinione, espongo delle ragioni ed invece di una critica costruttiva, che avrei senz'altro accettato anche se non condiviso, ricevo sarcasmo ed insulti”. Don Albertino era, a dir poco, furibondo.
Seguì ben presto una lunga risposta scritta, pubblicata a Fabriano nei primi mesi del 1821, affinché i posteri giudicassero sul merito di questa controversia scientifica.
Le cose non finirono tanto presto. Un altro "erudito censore" pubblicò le sue considerazioni critiche sul Giornale di Letteratura di Padova (5). Più o meno erano le stesse considerazioni del censore romano, ma don Albertino ritenne di dover sostenere le sue ragioni con una "Risposta" pubblicata in Fabriano nell'anno seguente. Aggiunse che nuovi ritrovamenti di ciottoli simili ai suoi erano avvenuti nel monte di Carpegna da parte del conte Luca Giannini di Pergola e nei dintorni di S. Costanzo ove esiste un "deposito di graniti e porfidi rotolati" come gli aveva comunicato il fabrianese Carlo Rosei.
Nel decennio seguente, tuttavia, nessun altro studioso si occupò più di questa questione. Eccettuando la segnalazione di Brocchi sui ciottoli di gneiss e di granito dei dintorni di Cantiano e di S. Costanzo (già segnalati da Bellenghi), i ciottoli di granito, di granito vero, di don Albertino caddero ben presto nel dimenticatoio.
Capitolo V
In un mio articolo pubblicato negli Atti del 2° Convegno "Fossili, evoluzione, ambiente" tenuto in Pergola nel 1987, ho indicato questa discussione scientifica sui ciottoli di granito come "problema geologico di Bellenghi". In effetti la storia non terminò con l'ultimo articolo di don Albertino perché essa rappresenta anche oggi un vero problema.
Vito Procaccini Ricci aveva visto i ciottoli di don Albertino e ne aveva condiviso le conclusioni sulla natura litologica, anche se non concordava sulla loro origine. In tempi successivi trovò anch'egli ciottoli identici a quelli di don Albertino.
A Pesaro era stata fondata da pochi mesi l'Accademia Agraria e Vito Procaccini Ricci era uno dei soci fondatori.
Il 7 ottobre del 1829, in una delle prime adunanza dell'Accademia, illustrò le risorse minerarie del distretto pesarese. In quell'occasione riferì che nelle vicinanze della villa del marchese Antaldi, lungo la strada dei condotti, affiorava un deposito di ciottoli "di pietre dure e di rocce primitive" e cioè "graniti, schisti micacei, porfiroidi". Fra questi ciottoli, uno gliene sembrò di notevole interesse, fatto di "quarzo bianco di grana finissima, attraversato non di rado da mica a strati squarciati ed interrotti e non dissimili da quelli che si veggono lungo l'alveo del Mella poco lungi da Brescia " (6).
L'anno seguente, approffitando delle bellissime giornate ottobrine, si recò a Capodicolle, distante una decina di chilometri da Cesena. Alla fine dell'estate era stata aperta una cava di ghiaia e tra quelle alluvioni apparvero anche resti fossili di vertebrati. Nelle marne sottostanti furono trovate numerose specie di conchiglie (7) cosicché Capodicolle acquistò per i naturalisti "una celebrità maggiore di quella che aveva potuto procurargli lo scelto vino di Bertinoro”.
Tra i ciottoli, in gran maggioranza calcarei, ecco comparire un "pezzo di granitone, composto di diallagio e di giada tenace, roccia che abbonda nei monti della prossima Toscana”. Questi ciottoli dunque dovevano "aver percorso non breve spazio avanti di pervenire al luogo dove rimasero”.
Le scoperte di ciottoli d'origine magmatica e metamorfica non erano però ancora terminate. Il nostro naturalista, infatti, durante le sue escursioni per la campagna pesarese, capitò a Monteluro.
Verso la sommità del colle di Monteluro, al di sopra di una formazione argillosa, stanno delle sabbie poco cementate tra le quali vi sono moltissimi ciottoli di rocce di varia natura litologica (8).
Vito raccolse i "ciottoli di pietre dure" e pensò che essi dovevano essere "partiti da lontanissimi luoghi" e in questo viaggio per i forti reciproci urti dovevano aver smussato i loro lati per cui apparivano ben arrotondati.
Le differenze tra i ciottoli osservati lungo il corso del Metauro o del Cesano e quelli del fiume Conca davano tuttavia da pensare.
"I ciottoli del F. Conca appartengono a rocce assai diverse e più primitive di quelle del Metauro che sono perlopiù calcaree" pensava Vito. "La catena appenninica nella Romagna e ben diversa da quella del Piceno. La formazione di queste due catene deve dipendere dunque da cause diverse che risalgono a quel grande cataclisma da cui esse hanno avuto origine e che rende così affascinante questa parte dell'Italia”.
Altri ciottoli raccolti sulla montagna di Perticara appartenevano alla classe dei "porfidi tendenti al nero con feldspati bianchi". Vito si ricordò allora di avere nel suo laboratorio un campione di questi porfidi proveniente dalla toscana Impruneta, situata nelle vicinanze di Firenze. Il confronto diretto lo convinse che i ciottoli di Perticara erano partiti proprio dalla Toscana. Cercò allora di dare un significato al ritrovamento di questi ciottoli che ricordavano quelli scoperti da don Albertino Bellenghi. Ripensò che i ciottoli del Catria "erano rotondati a foggia di grandi palle" e sembrava che avessero la stessa composizione mineralogica del granito dell'isola d'Elba. "Ed abbondavano anche gli gneiss" ricordò. "Ricapitoliamo. Ho raccolto i ciottoli di granito e di gneiss vicino a Novilara, a Capodicolle, a Monteluro, a Perticara e a Fosso Sejore tra Pesaro e Fano; sono stati trovati a San Costanzo e nei dintorni del M. Catria e tutti, proprio tutti, sono ciottoli ben arrotondati. Questi ciottoli hanno dunque subito un lungo trasporto e probabilmente hanno viaggiato dal Mediterraneo verso l'Adriatico. Qual è stata la causa?"
Vito aveva viaggiato in lungo e in largo per l'Italia e si ricordava delle rocce che affiorano sul monte Santafiora in Toscana.
"Questa montagna a forma di parallelepipedo è tutta fatta di trachite ed è la prima che s'incontra viaggiando da Siena verso Roma. La sua natura è dunque vulcanica. Poi c'è Radicofani che è in gran parte basaltica ed in seguito tutti i vulcani estinti da Bolsena ad Albano, a Nepi. Ma Santafiora è l'unico monte senza cratere. Siccome non ha un cratere, sembra quasi venuto fuori dal sottosuolo senza fiamme, senza eruzioni ed essersi poi raffreddato nel punto in cui è emerso”.
"Ecco, è successo probabilmente quel che è avvenuto l'anno scorso nel Mar Mediterraneo con l'isola Ferdinandea.
Dall'Etna a Santafiora è il regno di Vulcano, poi domina Nettuno" concluse Vito.
"Dev'essere stato lo scontro tra le masse vulcaniche emergenti dai fondali e le acque marine sottoposte a moti violenti che ha prodotto quel rimescolamento di ciottoli e di resti fossili che troviamo oggi in varie località d'Italia. Mi sembra che questo sconvolgimento abbia una precisa direzione: da sud verso nord. Il materiale trascinato dai moti delle acque marine dovette poi scontrarsi contro la linea dei vulcani euganei e berici che non se ne stavano buoni, buoni, ma respingevano tutto ciò che era trasportato contro di loro. In questi vorticosi moti le particelle più compatte e più resistenti devono aver attratto quelle a loro omogenee e formato quei grossi ciottoli che oggi stanno a così gran distanza dalle aree vulcaniche. Però quanti fenomeni occulti e misteriosi riserva ancora la geologia" pensò Vito con un po' d’amarezza per non riuscire a risolvere quei misteriosi eventi.
Capitolo VI
Giuseppe Mamiani partecipò all'adunanza dell'Accademia Agraria in cui Vito Procaccini Ricci aveva illustrato i ciottoli primitivi raccolti nei pressi della villa del marchese Antaldi. Tale notizia suscitò in lui curiosità ed interesse e si propose di visitare quell'affioramento. In realtà fece molto di più. Esplorò tutte le colline a sud-est di Pesaro o meglio quasi tutto il bacino del Genica.
Giuseppe trovò i primi ciottoli nei pressi di Muraglia e poi su su lungo il corso del torrente fino alla villa Bonamini. Proseguendo s'accorse che i ciottoli, stranamente, diventavano sempre più abbondanti e sempre più grossi. Proseguì allora verso Trebbiantico, guidato dai ciottoli che trovava lungo il percorso, fino a raggiungere quello che giudicò l'affioramento di provenienza situato nel taglio di una strada che attraversava il podere Ciacchi, ad una decina di metri al di sopra del letto del Genica. Al di sotto del terreno agrario ecco apparire due banconi sovrapposti, spessi da 2 a 4 m e lunghi da 20 a 40 m, ricchi di ciottoli primitivi sciolti o talvolta frammisti ad argilla.
La prima considerazione fu che quei depositi non erano il prodotto dell'attuale attività erosiva del Genica, ma il risultato di eventi più antichi.
Giuseppe cominciò ad esaminare i ciottoli ad uno ad uno, ne spezzò alcuni a colpi di martello e la sorpresa e la gioia per le scoperte aumentò sempre più.
"Le dimensioni di questi ciottoli sono eccezionali. Ecco qua un granito, tutto cristallizzato: qui c'è il feldspato, qui la mica nera e il quarzo è addirittura violetto. Quest'altro invece sembra più ricco di anfiboli. Ecco uno gneiss ricco di quarzo e di mica”. La sua attenzione fu poi attratta da un ciottolo rossastro che ruppe dopo averne esaminato l'aspetto esterno. "E' un porfido! con tanti cristallini immersi nella pasta vetrosa”.
Raccolse una gran quantità di ciottoli di rocce magmatiche o metamorfiche, ma all'improvviso Giuseppe si ritrovò fra le mani un ciottolo di calcare nerastro.
"Questo che c'entra?" pensò, ma non fu l'unico pezzo calcareo.
Cominciò a redigere un inventario di tutte le varietà di rocce che aveva raccolto, secondo le regole apprese nei più recenti manuali di geologia. In questo affioramento fra graniti, gneiss, porfidi, anfiboliti, selci e calcari contò una ventina di rocce. Proseguì poi lungo il versante di sinistra del Genica, attraverso le proprietà dei Sanchini. Anche qui nei campi affioravano numerosi ciottoli primitivi. Negli scassi del terreno fatti per piantare le viti, profondi quanto l'altezza di un uomo, si vedevano sul fondo solo ciottoli primitivi, talvolta mescolati con un'argilla piuttosto resistente. Erano così abbondanti che gli operai dovevano faticare parecchio per eseguire i lavori.
Giuseppe decise di proseguire l'esplorazione del territorio ed attraversò altri poderi: quello dei Foschi, poi quello detto Ariberti ed infine il podere dei Giancolini. Il risultato delle sue indagini fu che i ciottoli erano presenti in una fascia lunga almeno 300 m e ad una quota di 40-50 m al di sopra del corso del Genica. Era pomeriggio inoltrato e si propose di proseguire le indagini nei giorni successivi.
Alla fine dopo aver esplorato tutto il bacino del Genica e quello di Fosso Sejore dalle sue note risultavano 23 tipi litologici nel podere Ciacchi, 19 tipi litologici nei poderi Sanchioni e Foschi, 24 tipi litologici nei poderi Ciabatti, Ariberti, Tebaldi e Giancolini, 16 tipi litologici nei poderi Gennari, Paolucci e lungo il fosso Sejore fino al mare.
In conclusione, nelle colline da Trebbiantico fino alla foce del fosso Sejore erano presenti depositi di ciottoli primitivi in banconi dello spessore da 1 m a 2,5 m, in cui prevalevano ciottoli di porfidi o di porfiroidi. La scoperta aveva un certo interesse scientifico e Giuseppe decise di renderla nota con un articolo che pubblicò nel n. 20 del 1835 sulla rivista "Il Progresso" di Napoli.
Restavano però alcune questioni da risolvere.
"I calcari sono rocce secondarie per cui è veramente strana la loro presenza fra tutti quei ciottoli primitivi. Saranno anch’essi primitivi o forse di transizione?"
E poi: "Qual è l'origine di questo deposito di ciottoli? Non si tratta di uno o due campioni, ma di una quantità immensa!" Giuseppe, infatti, aveva saputo che un imprenditore aveva impiegato quei ciottoli per costruire la massicciata della strada comunale di Candelara lunga tra i 4 e i 5 km.
Non mancarono i soliti naturalisti critici che sollevarono i loro dubbi.
Erano i tempi in cui si dibatteva sull'origine delle rocce magmatiche sulle quali si scontravano le opinioni di vari studiosi. Particolari difficoltà suscitava, ad esempio, il porfido che era considerato "un granito a piccoli grani, ossia un granito compatto formato da piccoli elementi cristallini immersi in una pasta omogenea”.
Restava, inoltre, lo scoglio dei ciottoli calcarei. Giuseppe tuttavia credette di aver trovato la soluzione e scrisse a tal proposito un’appendice al suo articolo che fu pubblicato nel n. 23 della stessa rivista. Si era convinto che quei ciottoli calcarei non erano primitivi, ma avevano un'origine più recente.
"Se i ciottoli primitivi hanno subito un lungo percorso provenendo probabilmente dalla catena alpina, è logico supporre che durante il loro percorso siano stati inquinati con altri apporti provenienti dalle montagne calcaree dell'Appennino. La predominanza dei ciottoli granitici dipende dal fatto che essi, essendo più pesanti, si sono raccolti insieme nei luoghi più profondi come avviene nei fiumi attuali con i depositi dei minerali metalliferi che hanno un peso specifico superiore agli altri”. Completò le sue considerazioni con l'aggiunta di altri quindici tipi litologici provenienti anch'essi dal bacino del Genica.
Capitolo VII
Erano già trascorsi sette anni dalla pubblicazione dell'articolo di Giuseppe Mamiani sui ciottoli di Trebbiantico e di Novilara, ma nessuno era ancora riuscito a dare una risposta soddisfacente alle questioni che tale evento aveva suscitato.
L'ingegnere Antonio Gentili Rutili che in quegli anni procedeva al rilevamento delle risorse territoriali per il Censimento Rustico delle Marche, aveva comunicato a Giuseppe Mamiani che nelle vicinanze della Tomba di Pesaro, oggi Tavullia, c'era un deposito di ciottoli primitivi.
Il sito era vicino a Monteluro ed era stato già oggetto di studio da parte di Vito Procaccini Ricci.
Giuseppe fece un'escursione anche a Tavullia. Lo accompagnava questa volta Gaspare Bartoloni che desiderava diventare socio dell'Accademia Agraria di Pesaro.
Giunsero in una cava in cui si estraevano materiali per massicciate.
"Cominciamo con un rilevamento topografico di questo sito" propose Giuseppe "poi procederemo con le indagini sulle formazioni rocciose”.
Eseguito uno schizzo topografico con la bussola ed una cordella metrica, si dedicarono all'analisi delle rocce.
"Gaspare osserva la regolarità ed il parallelismo degli strati e lo spessore del banco dei ciottoli: è addirittura eccezionale!" disse Giuseppe.
L'altezza delI'affioramento misurava 11,90 m, gli strati avevano una inclinazione di 24° con immersione a NE e risultavano paralleli fra loro anche se qua e là si potevano osservare piccole ondulazioni. Il deposito dei ciottoli primitivi aveva all'incirca uno spessore di 1,5 m.
Gaspare aveva appena finito di estrarre un fossile, un pettinide, con il suo martello e lo mostrò a Giuseppe. Tutto il sito era pieno di molluschi fossili, come aveva già scritto Giambattista Passeri cent'anni prima.
"Questo è veramente un mistero geologico. Qui abbiamo dei ciottoli primitivi associati a molluschi fossili e a ciottoli di calcari secondari". Giuseppe era euforico. "E' un vero museo mineralogico. Rocce primitive, fossili marini, calcari, arenarie sciolte o cementate: il mondo primitivo insieme al mondo dei viventi”. Compilarono un elenco dei tipi litologici: sei varietà di granito, una di protogino, due di leptiniti, una di sienite, due di gneiss, una di micascisto, due di serpentine, una di quarzite, tre di porfidi, due di calcari ed infine una varietà di selce. Tutti i ciottoli erano avvolti da una matrice arenacea poco cementata per cui si potevano estrarre con facilità.
La "ciliegina sulla torta", come si dice, furono i ciottoli di calcare forati dai litodomi.
I fossili non erano ben conservati. Per la maggior parte si trattava di Pecten che mostravano valve poco o punto pietrificate, molto fragili, spesso biancastre come se fossero state calcinate. E poi ostriche, arche, volute, neriti ed anche dei Dentalium.
"Qui non si tratta più di qualche pezzo di roccia staccata dai monti e sepolta tra i sedimenti. Questi sono frammenti di rocce primitive provenienti da regioni lontane e deposti in un mare dove vivevano le volute, le neriti, le arche e i pettini" concluse Giuseppe.
In seguito diede notizie di questo nuovo giacimento nel Giornale per le Scienze Naturali di Bologna.
Giuseppe s'accorse che i ciottoli del bacino del Genica non contenevano resti fossili marini come avveniva invece nel giacimento di Tavullia: i ciottoli di Tavullia, dunque, dovevano essere stati versati in un mare. Solo una corrente di tipo diluviano poteva avere trascinato tanti ciottoli in una mare tranquillo dove vivevano quei molluschi.
Ciottoli di rocce cristalline si trovano in varie parti d'Italia: dal colle di Superga a Torino, ai colli di Como e persino nel Modenese. Questi depositi però sono relativamente vicini agli affioramenti di grandi ammassi magmatico-metamorfici. Brocchi nel suo celebre lavoro sulla catena appenninica aveva scritto che "le rocce primitive affiorano soltanto alle due estremità della catena, ossia nel Genovese ed in Calabria, ma mancano completamente nella parte intermedia”. Qual era allora la provenienza dei ciottoli del Pesarese?
Capitolo VIII
Un cenno sul deposito di ciottoli del Pesarese comparve anche in un lavoro sulle conoscenze geologiche dell’Appennino centrale pubblicato nel Bollettino della Società geologica di Francia (9) per opera del Conte Spada Lavini e di Orsini, due studiosi degli aspetti naturalistici delle Marche. I due autori riferirono di un deposito prodotto dal trasporto di ciottoli, un po’ più grossi di un uovo di pollo, che appartenevano alle formazioni rocciose dell’Appennino, ma, in particolare, a rocce più antiche come i graniti, gli gneiss, i micascisti, i porfidi. Queste rocce cristalline, tuttavia, non si trovano nei nostri Appennini per cui esse debbono essere state trasportate da luoghi lontani. Nelle vicinanze della Tomba (10) di Pesaro si potevano vedere molti di tali ciottoli, ma s’ignorava quanto questo deposito s’estendesse verso nord.
Anni dopo, Federico Cardinali si laureò discutendo la tesi sulla geologia dei dintorni di Pesaro e, in particolare, sul conglomerato poligenico. La commissione esaminatrice ritenne che il lavoro fosse degno di pubblicazione perché interessante “per la storia fisica della sua provincia”.
Nel 1880 Federico riuscì a pubblicare la tesi grazie all’aiuto di Luigi Guidi, naturalista pesarese, preside dell’Istituto Tecnico.
Federico aveva raccolto parecchi ciottoli lungo le colline comprese tra S. Costanzo, Mondolfo, Monteluro e Tavullia. Da alcuni aveva tratto frammenti per ricavare poi le lamine sottili da osservare al microscopio, come gli aveva insegnato il prof. Giovanni Capellini.
Lungo la strada che dalla collina della Madonna di Monte Peloso conduce a Monteluro aveva trovato una cava di breccia in cui affioravano dei depositi di ciottoli ed alcune bancate sabbiose. Tratto il taccuino, con matita e pastelli ne aveva delineato il profilo (Fig. 5). Procedendo dal basso verso l’alto, si vedeva dapprima una “puddinga poligenica” sulla quale poggiava una “sabbia silicea calcarea”. Al di sopra stavano un’altra “puddinga” ed alla sommità dell’affioramento “una sabbia ricca di mica dorata”.
I ciottoli posti alla base dell’affioramento erano “di differenti qualità, calcarei, granitici, porfirici, variabili per grossezza da 4 o 5 fino a 10 e 15 centimetri di diametro”. Questi ciottoli erano cementati da materiale calcareo “proveniente in gran parte dai gusci delle conchiglie che vi si trovano mescolate. Quantunque molte di esse siano frammentate pure ve n’hanno moltissime intatte e soltanto in causa della loro friabilità, quando si cerca di liberarle da loro nicchi, si rompono facilmente”.
Federico raccolse le conchiglie fossili delle quali alcune appartenevano ai bivalvi, altre ai gasteropodi.
Nel banco sabbioso sovrastante, spesso 3 metri circa, costituito da granuli quarzosi o micacei, si trovavano anche piccole concrezioni calcaree e conchiglie intere o in frammenti. Al di sopra stava un altro deposito di ciottoli di circa 1 metro di spessore e poi le sabbie “a mica dorata”. L’inclinazione dei banchi misurava 25° e l’immersione era “verso il mare”. Questo affioramento fu considerato il più importante da Federico perché conteneva fossili che indicavano il Pliocene e cioè il periodo di tempo in cui era probabilmente avvenuta la deposizione dei ciottoli sul fondale marino.
Continuò a cercare altri affioramenti. Nei dintorni di Pozzo Alto raccolse solo pochi ciottoli, ma quando raggiunse Novilara le cose cambiarono.
“Cominciando dal Casino Giorni e passando alla destra della Genica, attraversando i poderi Ciacchi, Gessi, Ferri, Muccioli, Meli, Tebaldi, si vede che i banchi si succedono di continuo e coronano sempre la sommità dei colli ed i ciottoli trovansi impigliati in una specie di fango costituito da sabbia micacea e da una grande quantità di argilla, senz’ordine alcuno si trovano i piccoli mescolati ai grandi, i calcari ai graniti, i porfidi alle diabasi. In talune località i banchi acquistano una potenza di 6 a 7 metri e sempre si vedono riposare sulla molassa superiore di cui sono ricoperte le colline circostanti.
Arrivati al villaggio di Trebbiantico la presenza dei ciottoli è attestata di quando in quando dal trovarsi essi per entro i rigagnoli e torrenti che attraversano quei terreni; anzi ne ho potuto osservare un banco nella possessione Gennari dalla parte del Fosso di S. Jore, che ha origine sotto il castello di Novilara, e il cui letto va ingombro dei medesimi ciottoli.
Passando alla sua destra e seguitando a percorrere le colline del territorio di Fano fino all’Arzilla toccando Roncosambaccio e S. Biagio noi ci accorgeremo ben presto che il conglomerato continua ancora nel vedere di tratto in tratto qualcuno di quei ciottoli di granito, di porfido che abbiamo trovato in tanto numero nelle colline antecedentemente percorse ed il fatto della loro scarsezza troverebbe un’equa spiegazione col fenomeno della denudazione variabile nei diversi luoghi.
Per terminare la rassegna delle località più interessanti mi rimane ancora a dire qualche cosa sulla collina su cui siede il castello di S. Costanzo, dove i ciottoli sono in tale abbondanza da fornire i materiali per selciare le vie al castello suddetto e a quello di Mondolfo che ne dista appena 4 chilometri”.
Federico riporta nella sua tesi anche la figura (Fig. 6) di un notevole affioramento nei pressi di S. Costanzo, di circa 7 metri di spessore, ubicato nell’incisione valliva di un torrente “che prende il nome della collina da cui trae origine”. Qui il deposito di ciottoli giace in trasgressione sugli strati sottostanti costituiti da “marne argillose fortemente raddrizzate con inclinazione da NO a SE”, marne che Federico attribuì al Miocene per “l’esistenza di una sorgente di acqua salata e leggermente solforosa che scaturisce da esse”. Al di sopra delle marne è situato “un conglomerato la cui potenza varia nei diversi punti, talora è ricoperto da un terreno sabbioso argilloso, talora resta perfettamente al nudo e questo è il caso più frequente”.
Ecco infine un’interessante annotazione: “potrei citare molte altre località dove io ho riscontrato questi stessi ciottoli” che sebbene “si trovano sparsi sporadicamente” mostrano una “direzione costante, lungo le colline comprese tra la Tomba a Nord e S. Costanzo a Sud”, anche se verosimilmente il deposito si estende “oltre i limiti da me esplorati tanto a Nord quanto a Sud”.
Questi ciottoli “furono depositati lungo il litorale del mare pliocenico, venendo in appoggio di un tal modo di vedere i dati paleontologici e stratigrafici”.
C’erano ancora molte altre considerazioni da fare. Innanzitutto “invano si cercherebbe in questo conglomerato una separazione degli elementi secondo il loro peso specifico o secondo il loro volume”. Inoltre “quella specie di fango che li avvolge si mantiene quasi sempre costante nella sua composizione facendo solamente eccezione per la collina della Tomba dove essi formano una specie di puddinga a cemento calcareo”.
Il diametro dei ciottoli varia da quello di una noce fino a “quindici e più centimetri, ma i più frequenti sono della grossezza di un grosso ovo di pollo”.
La forma varia: ve ne sono di “rotondi, ovali, ellittici, di quelli a guisa di lente biconvessa, altri schiacciati ed altri a forma poliedrica a spigoli smussati”. Quest’ultima forma sembra caratteristica del “diabase porfiroide”.
In proporzione, predominano i calcari tra i quali è interessante un “calcare fetido che non manca mai e che mi ha servito nelle mie escursioni più volte da spia pel rinvenimento del conglomerato stesso”. Al secondo posto vengono i porfidi, poi i graniti, le sieniti, i “diabasi porfiroidi”, le quarziti e per ultimo “qualche ciottolo di dolomia”.
I graniti hanno subito “l’alterazione più profonda; talvolta avviene che stendendo la mano per raccoglierne dei saggi, si vien fatti avvertiti di aver a che fare con un pugno di detrito; la superficie dei porfidi e delle diabasi porfiroidi è tutta bucherellata per la scomparsa dei cristallini di feldispato”.
Federico descrive poi 48 campioni petrografici che aveva anche osservato al microscopio tramite le sezioni sottili.
Ed ora mancavano le conclusioni di questo importante studio.
“Cominciamo col distinguere gli elementi appenninici e gli elementi alpini”, pensò Federico. “I calcari possono essere benissimo assimilati ai vari tipi che esistono nell’Appennino, ma il vero problema sono le rocce cristalline”.
Si ricordò di una considerazione del Breislak (11) il quale sosteneva che “quando in una contrada troviamo dei ciottoli la natura dei quali è diversa da quella delle montagne che appartengono ai paesi vicini, volendo assegnare loro un’origine, convien risalire ad un’epoca remota ed attribuire il trasporto ad alluvioni che hanno preceduto il corso delle acque che ora bagnano quella parte della superficie terrestre”.
“Potrei anche supporre”, disse Federico “una provenienza dei ciottoli da catene montuose molto lontane dal luogo in cui si trovano oggi. E questo sembra proprio il caso mio. Se non trovo queste rocce cristalline nell’Appennino, devo pensare allora ad una loro provenienza alpina”.
Aveva confrontato i suoi campioni con la raccolta petrografica del Museo geologico e paleontologico di Bologna ed era giunto alla conclusione che solo “nel Tirolo si rinvengono le maggiori analogie e rassomiglianze con le rocce di cui sono composti i miei ciottoli: i porfidi quarziferi rossi di Bolzano e Pronzollo della valle dell’Adige; le dioriti di Mezza Valle e di Traversera nel Tirolo; la sienite quarzifera ed il gabbro di Monzoni; il basalto di Uday; le dolomie del Pizzo di Mezzogiorno e di Meldola”. Ma Federico aveva ancora qualche dubbio. “Avrei bisogno di una serie molto più ricca di rocce tirolesi perché la collezione del Museo non permette un confronto del tutto decisivo”.
E così ripensò ai ciottoli di via Galliera a Bologna che quando sono lavati dalla pioggia mostrano la loro vera natura litologica del tutto simile a quella dei ciottoli pesaresi. “Quei ciottoli sono stati acquistati a Bassano, ma fin là sono stati trasportati dai ghiacciai alpini”.
Era tempo di formulare un’ipotesi.
“Le conchiglie fossili appartengono a specie che vivono anche oggigiorno per cui l’età del deposito potrebbe essere anche un po’ più recente del Pliocene. Inoltre molte sono intatte e fragilissime e per questo motivo bisogna scartare l’ipotesi del trasporto per opera di torrenti”.
“Un fiume seleziona i ciottoli in base al volume ed al peso specifico; qui invece non solo ciottoli di dimensioni diverse sono tutti mescolati fra loro, ma alcuni non sono neppure molto logorati”.
Si convinse che solo degli iceberg galleggianti, staccatisi da un fronte che scendeva fino all’Adriatico, avrebbero potuto trasportare dal Tirolo al Pesarese tutta quella gran massa di ciottoli calcarei e cristallini.
Pochi anni dopo, qualcosa di analogo a quanto era successo a don Albertino Bellenghi, capitò anche a Federico Cardinali. Si trovava, nella primavera del 1886, nel laboratorio di chimica dell'Istituto "Alberigo Gentili" a Macerata. Il prof. Santini gli mostrò un campione di terra portato da un ignoto contadino del quale, però, si sapeva che abitava nelle vicinanze di Appignano. Costui attratto dai colori delle particelle minerali sospettava di aver trovato una sabbia aurifera. Si trattava in realtà di un "detrito granitico".
Rintracciato il contadino, Federico riuscì, non senza qualche difficoltà, a farsi condurre sul luogo del ritrovamento. Il "detrito granitico" era stato raccolto su un masso, che risultò poi uno gneiss, immerso nelle argille turchine del Pliocene inferiore. In questa formazione rocciosa le frane sono piuttosto frequenti ed una di queste aveva messo allo scoperto quel masso "che doveva pesare ben più di un quintale". La patina d'alterazione, ricca di lamelle di mica dorata, aveva tratto in errore il contadino, ma l'interesse scientifico del ritrovamento era notevole.
Il masso era avvolto da argille contenenti fossili marini per cui esso non poteva essere stato trasportato da corsi d'acqua o da frane. Le argille turchine sono un deposito di mare abbastanza profondo ed il masso doveva dunque essere stato deposto ad una distanza notevole dal litorale.
"Che cosa sarà successo?" si chiese Federico.
Per ora Federico doveva astenersi da affermazioni non corroborate dai fatti. Tuttavia la sua conoscenza della geologia marchigiana lo portava a richiamare l'attenzione dei geologi sopra l'argomento dei ciottoli magmatici che dovevano avere "una grande importanza per spiegare la storia delle vicende geologiche della nostra penisola" considerato che "la presenza di avanzi di rocce di origine eruttiva è più frequente di quanto si pensi dai geologi tutti”.
Capitolo IX
Verso la fine dell’Ottocento i geologi italiani si confrontarono su un interessante problema riguardante l’origine delle sabbie delle coste del Mare Adriatico.
Molti anni prima uno studioso pesarese, Giovan Battista Passeri, aveva descritto una sabbia speciale che aveva chiamato arena terebrante.
Sotto il promontorio di Focara e, in particolare, a Punta degli Schiavi era da tempo raccolta “secondo che il mare ce ne fa dono”, una sabbia celebre “per la sua durezza e scabrosità” ricercata “dai professori di ottica per arrotare i cristalli e serve ancora ai scalpellini per segare i marmi”.
Questa sabbia è ricordata fin dai tempi di Plinio il Vecchio, nella sua Storia Naturale (12).
Si possono osservare, racconta Giambattista Passeri, dei cristallini rossastri, neri, o simili al rubino; ve ne sono dei verdi, ma per la maggior parte hanno il colore della ruggine del ferro.
Ne aveva parlato, nel 1710, anche l'Accademia Reale di Francia nei suoi Atti “come di un ammasso di pietre preziose”. “Altri dottissimi uomini considerando come l'arena ordinaria di tutto quel tratto è di color cenerino tendente al giallo non ha saputo comprendere in qual modo e da qual nascondiglio cavi il mare questa arena così differente dall'altra e ce la semini a razzi di tanto in tanto sul lido”.
Giambattista osservò “che nel sito medesimo il mare vomita qualche volta dei frantumi d'un bel granito d'inesplicabil durezza”. Ridotto in polvere a colpi di mazza quel granito dà una sabbia simile a quella terebrante.
In conclusione, dice Giambattista, quella sabbia doveva essere “un trituramento ed un rimacinamento di una vena inesausta di quel granito che resta dal mare coperta in faccia al monte medesimo ” (13).
Federico Cardinali aveva utilizzato la rena terebrante come smeriglio per fare le sezioni sottili delle rocce da osservare al microscopio, ma non aveva mai condotto un’indagine sulla giacitura di quei depositi sabbiosi. Per questo motivo, nel luglio del 1879, fece un’escursione lungo la spiaggia tra Pesaro e Cattolica e “stante il color rosso di quest’arena, colore che risalta benissimo sul giallastro uniforme della spiaggia” non fu difficile individuarla in più siti. Cercò di avere anche qualche informazione da coloro che la raccoglievano per farne “oggetto di lucro” e seppe così che:
“1) il mare la getta sulla riva quando è mosso specialmente dai venti di Nord e Nord Est;
2) che ora è spinta in un punto della spiaggia, ora in un altro;
3) che molti anni addietro gli elementi che la componevano erano più grossi;
4) che essa si trova tratto tratto lungo la costa da Pesaro a Cervia, dalla qual’ultima località venne anche l’anno scorso imbarcata per Trieste”.
Federico, tuttavia, non s’interessò più di tanto sulla composizione e sull’origine della rena terebrante.
La soluzione sembrò arrivare quando S. Traverso ed E. Niccoli (14) indicarono la possibilità che, in un periodo geologico abbastanza recente, esistesse nel bacino dell’Adriatico una catena montuosa, ricca per lo più di rocce eruttive e metamorfiche, della quale il Conero ed il Gargano sono due lembi residui.
Il lavoro in cui i due studiosi pubblicarono le loro considerazioni è posteriore di una decina d’anni ai lavori di Federico Cardinali che non aveva voluto prendere in considerazione l’ipotesi prodotta "dalla fervida fantasia di un geologo" su una catena montuosa adriatica di recente sommersa, così come aveva liquidato subito anche il trasporto effettuato dai ghiacci galleggianti.
E allora su quali elementi Traverso e Niccoli fondavano la loro ipotesi?
Le rocce eruttive e metamorfiche sono talvolta definite “rocce cristalline” perché in esse sono ben visibili i cristalli dei minerali che le costituiscono e pertanto essi definirono “massiccio cristallino” tale catena montuosa.
Questo massiccio in seguito scomparve a causa di un sistema di faglie, allungate secondo l’asse maggiore dell’Adriatico, che lo fecero sprofondare al di sotto del mare.
Traverso e Niccoli rilevarono innanzitutto che gli ipocentri dei terremoti che colpiscono le regioni adriatiche sono ubicati nel senso longitudinale del bacino marino ed il loro allineamento è una prova dell’esistenza di estese faglie.
I due studiosi ricordano poi che lungo il litorale tra Ancona, Pesaro e Ravenna, è possibile raccogliere dei campioni di sabbia, impiegata fin da tempi antichi per tagliare i marmi e lavorare le lenti, che per il colore rossastro e l’alta durezza dei suoi minerali è chiamata “rena terebrante”. Danno un elenco dei minerali presenti che risultano essere i principali costituenti delle rocce cristalline ed in particolare dei graniti.
A Gabicce esiste inoltre la cava di un’arenaria grigia o rossastra, durissima, ben diversa da quella che forma quei blocchi rotondeggianti di natura prevalentemente calcarea, localmente chiamati “cogoli”, molto diffusi nella cosiddetta molassa pliocenica.
Traverso e Niccoli pensavano che l’arenaria di Gabicce avesse un’età risalente nientemeno che al Trias inferiore, ossia ad un periodo geologico lontano da noi all’incirca 250 milioni di anni.
Sappiamo già che nelle colline pesaresi, in particolare alla Tomba e a Novilara, sono presenti ciottoli di rocce granitiche, dioritiche, porfiriche e gneissiche che rappresentano i tipi litologici più arcaici delle nostre Alpi.
Una nuova notizia che danno Traverso e Niccoli, è che nelle marne della formazione solfifera della Romagna sono talvolta presenti ciottoli e frammenti di “micascisto, di gneis biotitico, di granito roseo”.
Tutti questi fatti non sono compatibili con le rocce che costituiscono la catena appenninica, ma non è accettabile, sostenevano Traverso e Niccoli, nè una loro origine alpina, né il trasporto da parte di fiumi o di ghiacciai fino alla costa pesarese.
Anche lungo le coste della Dalmazia, in particolare nell’isola di Lesina, si possono raccogliere frammenti di rocce cristalline e cioè dioritiche, gabbriche, porfiriche, ma esistono anche massicci di rocce vulcaniche che testimonierebbero l’esistenza di centri vulcanici connessi con i fenomeni tettonici.
È dunque plausibile ammettere che nel bacino adriatico esistesse un antico massiccio di rocce cristalline, simile ai massicci presenti nelle Alpi centrali, che era a sua volta circondato da rocce di età più recente e, in particolare, da una formazione di età Permiano-Triassico, come mostrano le arenarie di Gabicce. Complessi fenomeni tettonici e vulcanici sconvolsero, probabilmente verso la fine dell’era cenozoica, l’area appenninica determinando la formazione del golfo ligure, della valle del Po e dell’attuale bacino adriatico.
Il massiccio cristallino che doveva affiorare più o meno tra Ravenna ed Ancona, era la parte settentrionale di una antica catena apulo-garganica la cui esistenza era stata ammessa dal De Giorgi, ma che aveva sostenuto anche Neumayr chiamandola Terra Adriatica.
In effetti l’esistenza di Adria, come era stato anche chiamato il massiccio cristallino, era stata accennata da diversi eminenti studiosi di geologia tra i quali Mojsisovic, Neumayr, Stache, Suess e da un altro studioso italiano, il Taramelli, nei suoi studi sulla geologia dell’Istria.
Le ricerche di Sacco (15) in Romagna condussero questo studioso a ritenere che i depositi ciottolosi di Predappio, Riordinano, Ponte della Buca, Cusercoli, Torre di San Paolo, Voltre, Bacciolino fossero stati trasportati da torrenti durante il Miocene superiore.
Discusse anche l’origine della rena terebrante, ricca di spinello, corindone, topazio, granato, quarzo, magnetite, pirosseno, mica, anfibolo, clorite, “materiali tutti che derivano dalla distruzione di rocce cristalline, specialmente di tipo granitico”, diffusa nel litorale romagnolo e marchigiano di cui mancano però le rocce-madri nel vicino Appennino. Anche Sacco pertanto ha ritenuto che doveva esistere una antica formazione rocciosa dalla quale provengono tali minerali, che però attualmente è, forse, nascosta dal mare.
È a questo punto della nostra storia che s’inserisce lo studio delle sabbie.
Nelle sabbie sono presenti dei minerali di vario peso specifico. È possibile separare questi minerali utilizzando dei liquidi pesanti, ossia dei liquidi che hanno un alto peso specifico come, per esempio, il bromoformio. I minerali di basso peso specifico galleggiano sul liquido usato, quelli più pesanti, invece, vanno sul fondo del bicchiere che contiene il tutto. I minerali pesanti, in quantità spesso modesta, sono poi studiati con altri strumenti di analisi, fisici o chimici.
Traverso e Niccoli avevano individuato nella rena terebrante tre minerali molto interessanti e cioè lo spinello, il corindone ed il topazio.
Il prof. Artini, proprio un mese dopo la pubblicazione del lavoro di Traverso e Niccoli, presentò una nota sulla composizione mineralogica di sabbie raccolte sui lidi di Pesaro e di Grottamare.
Fu l’occasione buona per esporre alcune considerazioni sul massiccio cristallino di Traverso e Niccoli. Se la rena terebrante contiene tra gli altri minerali, anche lo spinello, il corindone e il topazio, questa è la “prova migliore della origine non alpina” di quella sabbia. Infatti, aggiunge Artini, tale sabbia sarebbe diversa da tutte le altre, di origine marina o fluviale, presenti in Italia. Non solo. La mancanza di altre specie minerali, presenti nelle sabbie italiane, è del tutto eccezionale.
Artini, tuttavia, rilevò che le sabbie di Pesaro e di Grottamare sono invece simili alle sabbie padane.
La conclusione, secondo Artini, è che le analisi di Traverso e Niccoli o erano state eseguite in modo superficiale ed affrettato, oppure la rena terebrante del Pesarese è effettivamente una sabbia straordinaria, però mal studiata.
Si dava così inizio ad una lunga controversia scientifica.
Francesco Salmoiraghi (16) fece alcune interessanti osservazioni. Egli, infatti, analizzò i minerali pesanti contenuti nel calcare arenaceo del M. Titano stabilendo che in esso non è mai presente l’orneblenda, minerale comune invece nelle rocce cristalline delle Alpi. Pertanto le sabbie dalle quali deriva il calcare del M. Titano “non provengono dalla regione delle Alpi”. Questa potrebbe essere dunque una prova che tali sabbie derivano dalla distruzione di una catena montuosa ubicata nel bacino adriatico e vale a dire Adria.
I calcari arenacei di Verrucchio, Uffogliano, Pennabilli, ma anche di altre località più o meno vicine, non contengono orneblenda e dunque sono molto simili a quelli del M. Titano.
Tuttavia le sabbie attuali delle coste adriatiche sono ricche di minerali pesanti che non possono provenire dalle rocce appenniniche, o da una fonte scomparsa, ma da una fonte “copiosa e perenne, tuttora attiva” e dunque “da un’ampia area di formazioni cristalline”, ossia dalle Alpi.
Salmoiraghi conclude “che i minerali di rocce cristalline inclusi nelle formazioni calcaree mioceniche del versante orientale dell’Appennino possono, per la loro associazione discordante dalla litologia delle Alpi, riferirsi ad un massiccio scomparso; che per contro i minerali di rocce cristalline delle sabbie litorali adriatiche, se come credo derivano solo in piccola parte da quelle e da altre locali formazioni, in maggior parte dalle deiezioni padane, non costituiscono per loro stessi una prova diretta dell’esistenza di quel massiccio”.
In seguito Salmoiraghi confrontò le sabbie di Porto Corsini e di Porto S. Giorgio per dimostrare l’origine padana delle sabbie adriatiche nelle coste italiane, istriane e dalmate (179.
De Stefani (18) attribuì l’origine della rena terebrante del Passeri ai ciottoli cristallini presenti nei conglomerati pliocenici distribuiti da Cervia a Falconara. Questi ciottoli sarebbero i materiali residui di isole che da prima del periodo Triassico e fino all’Eocene hanno occupato un mare corrispondente più o meno all’attuale Mediterraneo.
Capitolo X
Alessandro Martelli, nel 1909, pubblicò due lavori (19) sui ciottoli derivati da rocce cristalline. Il primo era dedicato ai porfidi quarziferi presenti in un conglomerato affiorante nei dintorni di Fano. Un ciottolo “fanese” gli era stato affidato per l’analisi petrografica e mineralogica dal prof. Carlo De Stefani.
Il ciottolo, scrive Martelli, ha “un colore prevalentemente bruno-rossastro e sulle superfici arrotondate dagli agenti esterni apparisce più manifestamente porfirico, con piccoli inclusi bianchi e rosei giallastri in una pasta fondamentale bruna che comparisce appena fra il fitto aggregato dei cristallini bianchicci smaltoidi e giallo-rosei di feldispato, limpidi di quarzo e le laminette micacee; cristallini che sulle fratture si presentano solo eccezionalmente con dimensioni massime, tanto in larghezza che in lunghezza di mm 3-4”.
L’analisi del porfido continua con una dettagliata descrizione dei minerali che sono analizzati per mezzo del microscopio. La conclusione è che il ciottolo è un vero porfido quarzifero molto acido. Esso tuttavia si differenzia sensibilmente da questo tipo litologico “per una quantità di biotite e di feldispati sodico-calcici alquanto superiore alla normale” e per questo potrebbe essere classificato come “termine che volge verso le porfiriti quarzifere”.
L’accurata analisi chimico-mineralogica è di grande aiuto per individuare l’area di provenienza, adriatica o tirrenica, di un ciottolo. Gli studi petrografici di molti porfidi quarziferi della regione alpina o della regione sardo-corsa non erano purtroppo quasi mai accompagnati da analisi chimiche.
In conclusione il ciottolo presentava le maggiori somiglianze petrografiche con i porfidi della regione alpina. Nel versante balcanico o appenninico dell’Adriatico o in quello pure appenninico del Tirreno, “fra tutti i giacimenti paleovulcanici conosciuti che abbondano di tipi porfiritici quarziferi, pirossenici e anfibolici, non vennero ancora distinti e menzionati porfidi quarziferi confrontabili con quello dei conglomerati pliocenici di Fano, come per esempio potrebbero essere quelli comuni nel gruppo dell’Adamello”.
Tuttavia, continua Martelli, ciottoli d’altre rocce, “tanto cristalline che sedimentarie osservate nel conglomerato poligenico di Fano mostrano, almeno prevalentemente, la loro provenienza appenninica”.
Il secondo lavoro dedicato ai ciottoli di rocce cristalline, analizza quelli presenti in “arenarie puddingoidi” dei dintorni di Mosciano, in provincia di Firenze. Oltre ai ciottoli cristallini ci sono anche ciottoli di rocce sedimentarie talvolta ricchi di foraminiferi, come le nummuliti.
Martelli dà un elenco delle rocce cristalline riconosciute nei ciottoli. Si tratta di graniti, porfiriti, gneiss, micascisti con granati o con sillimanite, cloroscisti, scisti quarzitici, quarzite (“abbondantissima”).
Nel calcare nummulitico, aggiunge Martelli, “furono osservati e raccolti due grossi campioni di scisti cristallini e cioè un micascisto e un cloroscisto. Quest’ultimo, associato ad una quarzite e mirabilmente conservato costituiva un grosso frammento di circa 75 cm di lunghezza”.
Il fatto che i ciottoli avevano discrete dimensioni ed in generale erano poco alterati, lasciava pensare “ad una provenienza ben poco lontana dal punto di sedimentazione ed avvalorano l’esistenza di scogli cristallini, assai discosti dalle corrispondenti formazioni della cerchia alpina, nei mari eocenici della adiacente regione appenninica”.
Martelli osserva che questo conglomerato presenta molte forme petrografiche comuni con quelle “mioceniche del Monte Deruta e plioceniche del Pesarese”. Non si può escludere la provenienza dei ciottoli dalla catena metallifera toscana. Tuttavia “in essa, oggi, non rimangono in posto rocce identiche a quelle descritte”.
“Il grande sviluppo delle arenarie appenniniche può spiegarsi riferendosi all’enorme potenza delle formazioni granitiche e scisto-cristalline del nucleo centrale delle Alpi, che durante la sedimentazione eocenica poteva direttamente fornire il materiale alla costituzione di quei depositi, dislocati poi e notevolmente allontanati dalla zona marginale del rilievo cristallino delle Alpi, in seguito ai sollevamenti e ripiegamenti post-eocenici”.
“La presenza di grossi ciottoli cristallini insieme con rocce calcaree locali, dimostra evidentemente che nelle immediate vicinanze della zona di sedimentazione esaminata, esistevano isole di terreni cristallini antichissimi”. Esse erano costituite “da quelle stesse forme granitiche, filoniane e scistoso-cristalline peculiarmente sviluppate e ben conosciute nella regione centrale delle Alpi e delle Prealpi”.
I ciottoli di Deruta di cui parla Martelli, erano stati descritti anni prima da De Angelis d’Ossat e da Verri (20).
De Angelis d’Ossat riconosce che tutte le ipotesi proposte per spiegare la presenza dei ciottoli esotici nelle varie formazioni rocciose, erano insoddisfacenti. Per una corretta soluzione del problema era infatti necessario:
1) individuare tutte le località in cui erano presenti ciottoli esotici in modo da “apprezzare l’ubicazione e la diffusione del fenomeno”;
2) stabilire l’età esatta e la natura litologica delle formazioni rocciose che contenevano i ciottoli esotici in modo da poter “rimontare allo strato più antico e più vicino nel tempo alla causa e per indagare il mezzo di trasporto”;
3) l’esatta natura petrografica dei ciottoli e la loro età, avrebbe permesso di determinare l’età del deposito e la possibile provenienza.
4) Un grave ostacolo alla risoluzione della questione era inoltre la mancanza di precise carte geologiche dell’Italia. “Ora si brancola nell’oscurità di molti problemi insoluti e si costruiscono carte con l’identico risultato che raggiunge il topografo senza capisaldi trigonometrici”.
De Angelis d’Ossat, tuttavia, indica quali informazioni può trarre un geologo dall’analisi del giacimento dei ciottoli esotici di Deruta.
I tipi litologici rappresentati nel giacimento di Deruta non sono “svariati”, come succede in altri luoghi, e mancano del tutto i tipi “serpentinosi”. Prevalgono le rocce di tipo “toscano” rispetto a quelle di tipo “appenninico”.
I ciottoli d’età più recente sono riferibili all’Eocene superiore per cui l’età del giacimento è successiva all’Eocene. Sulla base dei fossili si può stabilire che i ciottoli sono inclusi in formazioni rocciose del Miocene medio.
Alcuni ciottoli “devono aver fatto parte del ciottolate di litorale” perché “sono forati da molluschi marini”.
Le dimensioni e la forma dei ciottoli suscitano però alcune domande.
Le dimensioni “piuttosto vistose” di alcuni ciottoli “(m 1 x 0,50) dimostrano che “le spiagge che fornirono il materiale” non dovevano essere molto distanti.
La forma subangolosa di quasi tutti i ciottoli, specialmente di quelli di rocce massicce, indica invece che il luogo di provenienza dei ciottoli doveva essere lontano. Per quanto si sa, ciottoli di rocce simili e della stessa forma erano stati trasportati per almeno 60 km dai corsi d’acqua alpini. Solo dopo 100 km i ciottoli assumono una forma grossolanamente arrotondata.
A causa delle deformazioni tettoniche non è possibile desumere “la direzione della traiettoria da essi tracciata”. De Angelis d’Ossat, sulla base di queste informazioni, propone la sua ipotesi. I ciottoli di Deruta potrebbero provenire da aree emerse “occidentali” e “non lontanissime” che dovevano esistere nel Miocene inferiore e medio. Questi territori erano probabilmente “costituiti da un nucleo cristallino ed ammantati da rocce mesozoiche e terziarie (tipo toscano)”.
Aggiunge De Angelis d’Ossat che non intende “portare un contributo alla dimostrazione della Tirrenide, essendo più che sufficiente, al nostro caso, l’esistenza incontrastabile della catena metallifera toscana. Questa invero corrisponde perfettamente alle condizioni, trovandosi ad occidente ed a distanza giusta per darci subangolosi i ciottoli di rocce massicce antiche”.
Questa ipotesi, inoltre, “si riduce nell’ammettere la scomparsa di una catena montana di cui ora non rimangono che frammenti disseminati. Nella nostra regione in istudio la spiegazione guadagna in verosimiglianza pel fatto della sicura esistenza della catena metallifera di cui tuttora rimangono in posto ben chiari relitti”.
Così procede il geologo nelle sue ricostruzioni paleogeografiche.
NOTE
(1) Bellenghi riferisce due date diverse su questa visita del Gualtieri: a pag. 6 dei Fossili del Catria indica il 1809, ma nello stesso lavoro a pag. 38, nota a, il 1810.
(2) Da Nettuno, dio del mare.
(3) Da Plutone, dio dei vulcani.
(4) Bodei & Brignoli (1813) - Alcuni cenni sulle produzioni naturali del dipartimento del Metauro. Pesaro.
(5) Giornale di Letteratura di Padova, n. 54, novembre-dicembre 1822.
(6) Anch’io, durante il rilevamento geologico dei dintorni di Gardone Valtrompia per la mia tesi di laurea, osservando le alluvioni ghiaiose del F. Mella ebbi subito la sensazione di trovarmi tra i ciottoli di Monteluro che precedentemente avevo avuto occasione di esaminare in varie escursioni.
(7) "Dentici, murici, buccini, ostriche, pettini, arche, came, telline, veneri, neriti, pinne e madrepore".
(8) Da una ventina d'anni il giacimento, ricco di molluschi fossili e di bellissimi ciottoli d'origine eruttiva, metamorfica e sedimentaria è stato distrutto da interventi di urbanizzazione.
(9) Spada Lavini A. & Orsini A. (1855) – Quelques observations géologiques sur les Apennins de l’Italie centrale. Bull. Soc. Géol. France, v. 12, p. 1202-1231.
(10) Questo nome che significa “collina”, sembrava invece “funereo” al podestà che amministrava il Comune nel 1938 per cui decise di sostituirlo con Tavullia. Vedi Pascucci I. (1986) – Il toponimo di Tavullia. In Tavullia fra Montefeltro e Malatesti. Atti del Convegno a cura di D. Bischi, pp. 9-15, Comune di Tavullia.
(11) Breislak S. (1822) – Descrizione geologica della provincia di Milano, pp. 6-7.
(12) Lib. 36, cap. 6: Postea reperta est harena non minus probanda ex quodam Adriatici Maris vado aestu nudante, observatione non facili.
(13) Passeri, Opere, vol. 256, parte II, B.O.P; Historia dei fossili dell’agro pesarese, Passeri, 1753, Diss. I, 7; 1755, Diss. III, cap. 6; 1775, Discorso II, cap. 7.
(14) Sull’esistenza di un massiccio di rocce cristalline, Atti Società Ligustica Sc. Nat. Geogr., 1896.
(15) Sacco F. (1899) – L’Appennino Settentrionale. Parte IV: L’Appennino della Romagna. Studio geologico sommario. Boll. Soc. Geol. Ital., v. 18, 1899.
(16) Salmoiraghi F. (1903) - Osservazioni mineralogiche sul calcare miocenico di S. Marino (M. Titano) con riferimento all’ipotesi dell’Adria ed alla provenienza delle sabbie adriatiche. Milano.
(17) Sull’origine padana, Rend. Ist. Lomb. Sc. Lett. Arti, 1907.
(18) De Stefani C. (1908) – Géotectonique des duex versants de l’Adriatique. Ann. Soc. Geol. Belgique, v. 33 (Memoires), pp. 193-278.
(19) Martelli A. (1909a) – Il porfido quarzifero del conglomerato pliocenico di Fano. Boll. Soc. Geol. It., v. 28, pp. 245-253.
Martelli A. (1909 b) – Ciottoli di rocce cristalline nell’Eocene di Mosciano presso Firenze. Studio geologico-petrografico. Pubb. R. Ist. Studi Superiori Firenze, pp. 34, 1 tav., Firenze.
(20) De Angelis d’Ossat G. & Verri A. (1900) – Il contributo allo studio del Miocene nell’Umbria. Boll. Soc. Geol. Ital., v. 19, n. 1; De Angelis d’Ossat G. (1900) – I ciottoli esotici nel Miocene del Monte Deruta (Umbria). Rend. R. Acc. Lincei, v. 9, 1 sem.; De Angelis d’Ossat G. (1900) – L’origine dei ciottoli esotici nel Miocene del Monte Deruta (Umbria), Rend. R. Acc. Lincei, v. 9, 2 sem.
Dettaglio scheda
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Data di redazione: 07.09.2012
Ultima modifica: 11.09.2012
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