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STORIA DI UN CIOTTOLO E DEGLI APPENNINI - parte prima,...

GLI INSETTI DEL METAURO NEL BASSO E MEDIO CORSO SINO A...

STORIA DI UN CIOTTOLO E DEGLI APPENNINI - parte seconda, di Alberto Ferretti


Capitolo XI

Italo Chelussi, in più lavori, ha analizzato le sabbie delle coste adriatiche di numerosi siti. Da Ravenna all’Abruzzo, le sabbie hanno una composizione mineralogica che le rende simili alle sabbie del Po e a quelle dei pozzi trivellati della pianura padana, o anche, per l’abbondanza in particelle calcaree, alle arenarie elveziane delle Marche e degli Abruzzi.
Contengono, infatti, minerali caratteristici quali gli anfiboli azzurri, il cloritoide e la cianite, che sono comuni nelle sabbie del Po e nelle arenarie elveziane. Alle foci del Salinello, vicino Tortoreto, si trovano sabbie ricchissime di granito. Da Silvi a Torino di Sangro, in Abruzzo, per circa 50 km, gli elementi padani diminuiscono sensibilmente, ma si rileva una forte presenza di augite verde. Da Casalbordino, poco dopo Torino di Sangro, fino a Termoli mancano del tutto gli elementi padani.
Sull’origine delle sabbie affini a quelle padane, Chelussi ricorda tre ipotesi precedenti:
1) la sabbia terebrante del Passeri deriva dai ciottoli cristallini del conglomerato poligenico che si trova tra Cervia e Falconara (ipotesi Di Stefano);
2) i minerali padani sono stati trasportati dalle correnti marine e dalle torbide sul fondale adriatico ed in seguito il flutto di fondo (che ha una maggior capacità di trasporto quando si dirige verso la costa) ha spinto i minerali più pesanti verso la costa dove li ha deposti (ipotesi di Artini e Salmoiraghi);
3) la presenza del glaucofane, del cloritoide e della cianite pare dovuta al trasporto dei fiumi appenninici che erodono le arenarie elveziane presenti dalle Marche al Gargano. Chelussi, tuttavia, sulla base delle caratteristiche delle sabbie abruzzesi e pugliesi, non ritiene improbabile l’ipotesi di una terra emersa, ossia Adria. Forse gli scandagli allora in corso nei fondali dell’Adriatico potevano indicare i limiti approssimativi “che probabilmente dovranno trovarsi nella parte meridionale di questo mare”.
L’ipotesi di Adria sembrava pertanto verosimile.
Sui ciottoli “primitivi” del Pesarese ritornò alcuni anni dopo G. Rovereto con varie considerazioni esposte nel suo Trattato di geologia morfologica (1924).
Rovereto sostiene che minerali e frammenti rocciosi possono provenire da sedimenti anteriori per eredità mediante azioni di rimaneggiamento e trapasso. “Non partendo dal concetto d’ereditarietà, ossia che tali ciottoli il mare pliocenico li abbia tolti a formazioni anteriori e li abbia in certo qual modo ereditati per lo meno dal mare miocenico, si verrebbe allo conclusione erronea che un massiccio cristallino sia stato emergente nel Pliocene sulla riva dell’Adriatico”. La rena terebrante sarebbe in realtà “un’arena ereditata proveniente dal lavaggio di terreni miocenici i quali a loro volta debbono averla tolta a terreni anteriori: onde il massiccio cristallino che in origine la fornì è stato distrutto per lo meno durante l’Oligocene”.

Capitolo XII

Altri geologi dedicarono, invece, più specificamente le loro ricerche alla genesi della catena appenninica.
Nel 1840 G. Bianconi chiamò Argille Scagliose una formazione rocciosa diffusa nell’Appennino Emiliano, che a luoghi ingloba “ora in maggiore, ora in minor quantità” frammenti di serpentini, calcari a Fucoidi, Macigno e marne, senza indizi di stratificazione. Il colore è vario, dal nero al “bronzino metalloide”.
Bianconi fu attirato soprattutto dall’aspetto delle fratture che scompongono in scaglie i materiali di questo complesso roccioso.
Le fratture, infatti, hanno una “superficie levigatissima, dolce, untuosa al tat¬to, lucente, ceroide e metalloide delle scaglie”.
Il nome deriva da tali caratteristiche delle scaglie.
Per spiegare la presenza delle serpentine nelle Argille Scagliose dovettero lavorare schiere di geologi, italiani e stranieri.
Nel 1881 Bombicci (21), docente dell’Università di Bologna, illustrò la sua teoria orogenetica dell’Ap¬pennino Settentrionale dovuta a gravità e in seguito, nel 1901, sostenne che le Argille Scagliose si erano deposte sul margine padano per fenomeni gravitativi.
Contemporaneamente L. De Launay (1901) con un’originale interpretazione (22) definiva le “rocce verdi” come complessi ammassi, spesso lentiformi, di gabbri, eufotidi, peridotiti, diaba¬si, serpentine collocati caoticamente tra altri complessi rocciosi, separati tra loro e privi di un collegamento con apparati magmatici profondi.
In seguito, nel 1907, Steinmann (23) cercò di applicare all’Appennino settentrionale la teoria delle falde di ricoprimento con le quali Lugeon aveva interpretato la struttura delle Alpi. Steinmann aggiunse una notazione importante e cioè che le rocce verdi erano associate a sedimenti di mare profondo. Un altro fatto da spiegare era, inoltre, l’assenza di apparati magmatici profondi ai quali poter collegare i numerosi affioramenti di ofioliti o rocce verdi di cui era stata dimostrata la natura magmatica. Siccome non avevano un collegamento con un apparato magmatico dovevano essere state sradicate da esso e trasportate lontano.
L’opposizione dei geologi italiani a queste nuove teorie orogenetiche fu molto forte. De Stefani (1914) accusò Steinmann di aver svoltò “troppo breve osservazione stratigrafica” e “secondo un costume, per verità troppo poco scientifico, d’oltr’alpe, abbia mancato di meglio informarsi dei lavori nostri” e concludeva affermando che “l’illustre collega … sarebbe arrivato a conclusioni più semplici e naturali” se avesse basato le sue congetture sulle solide basi della paleontologia e della stratigrafia (24).
Gortani (1928, p. 16), dopo aver confutato la possibilità che “scivolamenti possono essere intervenuti nella formazione di grandi catene a pieghe”, rilevò tuttavia che movimenti traslativi dei “così detti blocchi esotici” potrebbero aver avuto “luogo in causa dell’enorme approfondirsi dei geosinclinali e del conseguente inclinarsi dei loro fianchi ” (25).
Poco dopo giunse una nuova interpretazione data da Guido Bonarelli.
Guido aveva iniziato le sue ricerche geologiche nell’Appennino umbro-marchigiano studiando, fin da ragazzo, dapprima il territorio eugubino, poi la catena del Catria e quella dei monti del Furlo.
Durante l’estate del 1928 condusse delle ricerche nel Montefeltro (26) che è, sotto l’aspetto geologico, un territorio molto complicato. Rimase colpito dal fatto che le pieghe tettoniche degli strati a NO e a SE del Montefeltro sembrano essere le une il proseguimento delle altre, ma le formazioni rocciose feltresche interrompono questo motivo strutturale. Nel Montefeltro le montagne maggiori hanno forme diverse da quelle dell’Appennino umbro-marchigiano: ricordano un po’ le ambe africane essendo formate per lo più da grandissime piastre rocciose variamente inclinate.
Guido si convinse che quei piastroni sono formati da rocce più antiche di quelle che ricoprono. Ritenne anche che tale evento non fosse dovuto ad un carreggiamento, ossia ad una avanzata degli ammassi rocciosi al di sopra delle altre formazioni spinti da forze che agivano in senso orizzontale, ma piuttosto ad uno scivolamento, secondo un piano inclinato, dall’alto Appennino verso zone più basse. Si tratterebbe, in termini semplici, di enormi franamenti.
Nella successione delle formazioni rocciose del Montefeltro è pertanto possibile distinguere le formazioni autoctone, ossia quelle che, pur piegate dalle forze orogenetiche, hanno mantenuto la loro posizione originaria, da altre alloctone che hanno terminato il loro viaggio al di sopra del substrato autoctono. Nell’alto Appennino si conservano ancora “lembi o testimoni indisturbati” delle formazioni rocciose che compongono la serie alloctona del Montefeltro.
Era questa un’interpretazione del tutto nuova della struttura geologica del Montefeltro.
In verità Giambattista Passeri aveva predetto qualcosa di simile.
Osservando il Sasso di Simone “mi cagionò meraviglia grandissima l'osservare la forma e la natura della pietra che compone quel gran sasso diversissima dalla terra che sta sotto al sasso medesimo. Poiché il fondamento di questo è di cretone e genga tenera ed il sasso è di un duro macigno e pare appunto che vi sia stato portato d'altronde e quivi lasciato a caso ” (27).

Capitolo XIII

Raimondo Selli (28), eminente geologo, docente nell’Università di Bologna, intraprese negli anni della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, lo studio geologico del bacino del fiume Metauro che pubblicò nel 1954.
Selli ha dato una precisa descrizione della composizione mineralogica della rena terebrante il cui colore rosato è prodotto da “plaghe più ricche di granati”; nei campioni raccolti tra Pesaro e Fano i granuli di granato hanno dimensioni medie più grandi di quelle dei granuli presenti nei campioni raccolti tra Cervia e Falconara. È bene tener presente che la rena terebrante compare saltuariamente solo nel litorale tra Cervia e Falconara, in particolare dopo forti burrasche.
Il trasporto della sabbia lungo il litorale avviene ad opera di correnti dirette da SE verso NW (ossia da Falconara verso Cervia). Queste correnti agiscono fino ad 8-10 km dalla costa. L’azione di trasporto del moto ondoso termina al di sotto di 20 m circa di profondità. Per questi motivi sembra improbabile che le sabbie abbiano un’origine padana, come aveva sostenuto Artini, che suppone un trasporto nel senso contrario.
È da escludere inoltre un’origine delle sabbie per dilavamento delle formazioni rocciose marchigiane che hanno caratteristiche mineralogiche diverse; per di più sarebbe difficile spiegare perché tali sabbie mancano nei litorali delle Marche centro-meridionali.
Selli ritiene che l’ipotesi di Traverso e Niccoli sulla presenza di un massiccio cristallino nel bacino adriatico sia quella più probabile: “la rena terebrante potrebbe avere un’origine puramente adriatica o da rocce cristalline o da loro prodotti di disfacimento tuttora emergenti sul fondo dell’Adriatico”. In effetti pochi anni prima Scaccini (1947) aveva scoperto al largo di Senigallia un fondo roccioso “che potrebbe confermare una tale interpretazione”.
Anche i ciottoli di rocce eruttive e metamorfiche avrebbero la stessa origine della rena terebrante. Questi ciottoli hanno spesso dimensioni cospicue, superiori a 20 cm di diametro, ed hanno “una grandissima diffusione fra i fiumi Tavollo e Cesano”. Osserva Selli che questi conglomerati sono ubicati alla sommità delle formazioni arenaceo-sabbiose di età pliocenica (Pliocene inferiore e medio corrispondente più o meno a 4-5 milioni di anni fa) i quali furono deposti da un mare che si stava ritirando dalla terraferma perché in alcuni siti si trovano i fossili di organismi microscopici (microfaune) caratteristici di ambienti litoranei o addirittura salmastri.
I ciottoli furono poi ripresi da una successiva avanzata del mare sulla terraferma, come dimostrano i depositi di S. Costanzo, mentre in altri siti, come nel Fosso dei Condotti o a Fosso Seiore, essi sono stati trasportati in tempi più recenti, ossia nel Pleistocene.
Ritorna, dunque, il problema dell’origine di questi ciottoli.
Le rocce eruttive e metamorfiche “non affiorano in posto né nella nostra, né, per un amplissimo raggio, nelle regioni contermini”: gli ammassi più vicini si trovano “nelle Alpi, nella regione tosco-tirrenica e in quella dalmata”.
Escluse le ipotesi più semplicistiche, quali il trasporto per opera di ghiacci galleggianti o di apparati radicali di piante, restano da discutere il trasporto ad opera di correnti di torbida e quello ad opera di coltri alloctone.
L’ubicazione dei conglomerati, la loro assenza per amplissimi tratti del versante adriatico-padano, le dimensioni dei ciottoli, la loro mancanza nelle formazioni rocciose più antiche (pre-mioceniche) o nella Formazione delle Argille Scagliose ed invece la mancanza di rocce caratteristiche delle Argille Scagliose nei conglomerati in questione, sono fatti che non corroborano le due ipotesi predette.
“In tali condizioni appare necessario ammettere una provenienza diversa e più vicina” e cioè quella del massiccio cristallino “oggi sommerso, ma forse non ancora completamente sepolto dai sedimenti dell’Adriatico”.
All’incirca 25 milioni di anni fa “nell’Adriatico, al largo di quella che è oggi la costa pesarese”, emergeva dunque un massiccio cristallino. La massima emersione tuttavia sarebbe avvenuta intorno a 4 milioni di anni fa quando il mare Adriatico si ritirò dalla terraferma per cui iniziarono intensi processi erosivi e cominciò il trasporto dei detriti verso la costa pesarese. Il massiccio non sarebbe però quell’Adria di cui trattarono gli autori precedenti, ma “il nucleo eruttivo-metamorfico dell’avampaese adriatico delimitante all’esterno l’avanfossa neogenica marchigiana”.
Bisogna tener presente, infine, che “le ghiaie e i conglomerati di varia età affioranti in altri punti della nostra regione hanno composizione ben diversa”: i conglomerati di Pietrarubbia e di Lunano “sono costituiti da elementi provenienti dalle Argille Scagliose”; i conglomerati di Cingoli, i ciottoli raccolti nella Formazione gessoso-solfifera a SW di Pergola, o “nelle molasse” fra Serra dei Conti e Staffolo provengono dalla catena marchigiana. “Ma in tutti questi conglomerati mancano elementi eruttivi e metamorfici”.

Capitolo XIV

Le ricerche di Ruggeri (1958) sulla “colata gravitativa della Val Marecchia”, detta anche “colata feltresca” sono un caposaldo per la conoscenza della struttura geologica del Montefeltro.
Signorini (1946) aveva avvertito che “chi intraprende lo studio geologico della catena appenninica cominciando dalla parte settentrionale di essa (Liguria ed Emilia), si trova nelle condizioni più sfavorevoli per una comprensione dei caratteri fondamentali dell’Appennino: si trova infatti nella regione dove la serie stratigrafica autoctona e le vere strutture dell’Appennino sono maggiormente nascoste perché ricoperte dalla massima estensione e dalla massima potenza e molteplicità di terreni alloctoni”.
Conviene pertanto iniziare lo studio della geologia dell’Appennino partendo dall’Appennino Centrale dove “troviamo i più antichi terreni autoctoni” ben conosciuti nella loro successione stratigrafica e nel loro assetto tettonico grazie alle ricerche di numerosi studiosi.
Questa, inoltre, è “la parte più fortemente sollevata: procedendo verso nord, con l’immergersi delle singole pieghe e dei complessi geologici, compaiono i fenomeni di ricoprimento prima limitati e semplici, poi man mano più intensi, estesi e complessi. Partendo così dalla parte profonda della serie, anche questi fenomeni della parte alta divengono man mano più facilmente comprensibili ” (29).
L’interpretazione proposta da Bonarelli, Merla e Signorini sulla alloctonia delle formazioni rocciose dell’Appennino Settentrionale non fu subito ben accolta dagli studiosi: era evidente “una larga corrente, palese o sotterranea, di scetticismo ”(30). C’era dunque “molto lavoro da compiere” ed in particolare uno “studio un po’ meno generico” dei complessi rocciosi alloctoni (o esotici) trasportati dalle colate.
Ruggeri si accorse che la colata gravitativa della Val Marecchia è una struttura particolarmente favorevole all’interpretazione dei meccanismi di alloctonia delle formazioni rocciose perché le sue dimensioni sono relativamente piccole per cui “l’autoctono sottostante mantiene una sufficiente continuità di facies sulle opposte rive della massa alloctona ” (31).
Giuliano Ruggeri iniziò dunque uno studio di dettaglio dell’area feltresca e scoprì fatti del tutto nuovi. La colata della Val Marecchia era avvenuta in realtà in almeno due tempi distinti: la prima verso la fine del Tortoniano (all’incirca 9 milioni d’anni fa), la seconda nel Pliocene inferiore (tra 3 e 4 milioni d’anni fa).
La colata più antica era già stata individuata grazie alla presenza di ammassi di “Argille Scagliose intercalate alla sommità della Marnoso-arenacea nei dintorni di Sarsina”. La seconda richiese più accurate indagini sul terreno. Sia fra Savignano di Rigo ed il T. Ansa (versante di destra del F. Savio), sia tra Casa Antonio, S. Martino e S. Giovanni, poco a monte di Montegrimano-Valle Avellana (versante di sinistra del F. Foglia) “le Argille Scagliose ricoprono regolarmente il Pliocene inferiore”.
Alcuni elementi esotici trasportati da questa colata contengono fossili che permettono di attribuire la loro età al Miocene superiore, ma anche al Pliocene inferiore. Questi elementi hanno una natura litologica differente da quella delle formazioni autoctone della stessa età per cui devono provenire “da un’area abbastanza distante”, probabilmente da un’area situata “oltre la linea S. Agata Feltria-Frontino”. Le caratteristiche di questi elementi alloctoni sono addirittura simili a quelle delle formazioni rocciose dei Monti Livornesi e della Val di Cecina (32).
Nei dintorni di Perticara le formazioni rocciose di età Messiniano superiore-Pliocene inferiore sono normalmente sovrapposte a quelle autoctone del Tortoniano, ma in parte anche “sopra le estreme lingue nord-occidentali della prima colata di argille scagliose” ciò che è ben evidente nella valle del T. Fanante, per esempio, “poco a monte della sua confluenza col Savio. In questo punto le marne grigie della sommità del Tortoniano presentano delle vere e proprie lenti di argille scagliose, spesse poche decine di metri”.
Un altro sito interessante è nei dintorni di Macerata Feltria. Qui una “lingua di argille scagliose” parte da Pieve di Cagna e prosegue poco sopra Ca’ Marcello e Ca’ Buratto.
In tutti questi siti è possibile datare “esattamente della fine del Tortoniano str.s. la prima colata osservabile di argille scagliose”.
Sopra la prima colata si depositarono le formazioni rocciose del Messiniano e del Pliocene inferiore e cioè le “marne di letto” (marne spesso bituminose, talvolta con tripoli), gessi e calcari, “colombacci”, marne argillose verdognole o azzurrognole. Ruggeri chiamò neoautoctono 1 tutte queste formazioni.
Una seconda colata di argille scagliose avvenne nel Pliocene inferiore. Questa è “più facilmente documentabile”. Ma in geologia le situazioni sono spesso molto complesse. Infatti “in relazione al secondo colamento, anche le argille della prima colata si sono rimesse in moto finché, infranta e smembrata la copertura di neoautoctono 1, le due colate hanno finito per costituire un unico corpo tettonico, conservando solo nelle zone periferiche la loro individuabilità”.
Procedendo verso la costa adriatica, la colata di argille scagliose è ricoperta dalle formazioni rocciose del Pliocene (o “neoautoctono 2”) per cui solo in alcuni siti, grazie ai fenomeni erosivi, è possibile individuarla.
Quale aiuto possiamo aspettarci dallo studio delle colate e degli esotici che contengono?
L’età in cui è avvenuta una colata è sicuramente posteriore a quella degli elementi lapidei (esotici) che ingloba. Gli esotici dunque possono essere paragonati ai fossili guida. L’età di una colata, ricca di esotici, “è immediatamente posteriore a quella degli esotici più giovani riscontrati”.
Lo studio petrografico e paleontologico degli esotici può “permettere di precisare l’area di provenienza della colata”.
Giuliano Ruggeri ci suggerisce, dunque, degli strumenti importanti per stabilire il mezzo di trasporto, ossia le colate, e l’area di provenienza dei ciottoli cristallini. Ad esempio, “i vecchi petrografi avevano riscontrato nel Miocene medio nordappenninico (alloctono, ma allora nemmeno sospettato tale) la presenza di minerali caratteristici dell’area tirrenica (vedansi Salmoiraghi, 1903, Chelussi, 1912)”.
Tuttavia, “questa ricerca, non è stata per ora nemmeno tentata”.

Capitolo XV

Dopo la pubblicazione del lavoro di Raimondo Selli sul bacino del Metauro comparvero altre interessanti ricerche che riprendono il tema di Adria.
Veggiani (1955) segnala la presenza di ciottoli cristallini nella parte superiore della Formazione Marnoso-arenacea nella valle del T. Borello (affluente di sinistra del F. Savio) nelle vicinanze di Ranchio (33), situato ad est di Mercato Saraceno. Veggiani precisa che di questi ciottoli il 40% è rappresentato da rocce eruttive e metamorfiche (graniti bianchi e rosei, porfidi rossi quarziferi, quarziti, filladi quarzifere), il restante 60% da rocce sedimentarie “quasi sicuramente non di origine appenninica”: si tratta di calcari marnosi grigiastri, calcari “pieni di macroforaminiferi”, calcari biancastri o grigiastri con noduli di selce nera, dolomia.
Ca’ di Livio presso Monte Castello (Mercato Saraceno) è un altro sito ove Veggiani raccolse ciottoli cristallini. Qui sono presenti anche abbondanti esemplari fossili di Ostrea crassissima che permettono di datare il deposito ciottoloso alla parte superiore del Miocene medio.
“É il caso di notare – osserva Veggiani – come questi ciottoli siano ben diversi da quelli che sono inclusi nella formazione gessoso-solfifera del Miocene superiore” tra i quali mancano i ciottoli cristallini che ritornano invece “in formazioni più recenti (Pliocene-Quaternario antico)”.
Veggiani accenna al problema della provenienza dei ciottoli, ma avverte che solo “uno studio sistematico dei ciottoli inclusi nelle varie formazioni geologiche dal crinale appenninico alla Pianura Padana e i relativi confronti fra i diversi costituenti litologici non potranno mancare di farci giungere a interessantissimi risultati”.
Ruggeri (34) riprende queste osservazioni di Veggiani osservando, come aveva avvertito Merla (35), che la Marnoso-arenacea è formata anche da materiali clastici di probabile origine alpina.
Sull’origine dei ciottoli cristallini aggiunge qualche altra considerazione.
I ciottoli hanno dimensioni variabili, da pochi centimetri a qualche decimetro, e sono contenuti in formazioni che non presentano “sintomi di risedimentazione” per cui non possono provenire da aree molto distanti. La loro presenza si può spiegare, dunque, solo ammettendo l’esistenza di un gruppo montuoso emerso nelle vicinanze dell’Appennino. È questa l’ipotesi di Traverso e Niccoli, riproposta dal Selli. Ruggeri aggiunge che “le recenti ricerche col metodo gravimetrico nell’Alto Adriatico hanno messo in evidenza una fortissima anomalia positiva in tutta vicinanza della costa nella zona fra Pesaro e Ancona, anomalia che è interpretata da Morelli (1955) come prova dell’esistenza dell’avampaese cristallino-metamorfico”.
Ora, dunque, l’esistenza di Adria è qualcosa di più di un’ipotesi.
Ricci Lucchi (1969) e Veggiani & De Francesco (1969) (36) hanno approfondito le conoscenze su due importanti giacimenti conglomeratici quello di Fontanelice, nel Bolognese, che è simile a quello di Ranchio, situato nella valle del torrente Borello (Appennino cesenate).
Il primo è stato analizzato da Ricci Lucchi (1969); il secondo, già studiato da Veggiani (1955), è stato ripreso da Veggiani & De Francesco (1969) . I due giacimenti distano una cinquantina di chilometri.
In tali depositi gli elementi grossolani sollevano più questioni:
1) sull’area di provenienza dei materiali stessi, la cui taglia, può far sospettare la prossimità di una linea di costa;
2) sulle modalità di trasporto e di deposito;
3) sulla paleogeografia le cui conoscenze sono molto scarse, data la notevole evoluzione tettonica intervenuta dopo il Tortoniano.
Il deposito di Fontanelice risulta costituito da elementi con diametro che al massimo raggiunge 20 cm, privi di un particolare orientamento e cioè disposti in modo “casuale e disordinato” e senza gradazione alcuna. La metà dei ciottoli è costituita da rocce eruttive o metamorfiche, quali “graniti bianchi a due miche, tonaliti e porfidi quarziferi”; i tipi sedimentari sono rappresentati da vari calcari, da dolomie, da selci, da arenarie e cioè grovacche o calcareniti. I ciottoli di rocce sedimentarie contengono talvolta fossili che hanno permesso di stabilire la loro età distribuita dal Triassico al Miocene. I tipi litologici ricordano quelli della successione veneta.
L’analisi degli indici di sfericità e di appiattimento dei ciottoli e la loro ripartizione in base alla forma ha permesso di individuare una prevalenza di forme sferiche e lamellari rispetto a quelle appiattite o discoidali, con un pronunciato grado di arrotondamento. Queste caratteristiche indicano una “ghiaia fluviale” perché i ciottoli marini hanno forme più “appiattite e simmetriche”.
Altre indicazioni di un trasporto torrentizio provengono dalle tracce di scheggiature dei ciottoli che nel prosieguo venivano poi arrotondate.
A questo punto sorge un’interessante questione e cioè come sia possibile che ghiaie fluviali siano intercalate con sedimenti di mare profondo. L’interpretazione più verosimile è che questi ciottoli, dopo essere stati trasportati da torrenti ed ammassati sul margine della fossa romagnola, sono stati successivamente scaricati in essa ad opera di frane sottomarine che li hanno “canalizzati e incanalati in cañons”.
Ricci Lucchi & D’Onofrio (1967, p. 37) hanno precisato che le Sabbie di Fontanelice appartengono alle flussoturbiditi che hanno come “condizione essenziale la presenza di pendii sottomarini molto ripidi ” (37).
Nel giacimento di Ranchio (38) “che può essere riferito alla formazione delle sabbie di Fontanelice”, Veggiani & De Francesco (1969) hanno analizzato soprattutto ciottoli di rocce sedimentarie che costituiscono poco più della metà dei tipi litologici presenti. Questi elementi sembrano provenire da formazioni rocciose distribuite dal Triassico al Miocene inferiore. Mancano ciottoli di formazioni rocciose del Cretacico medio-superiore (e cioè della Scaglia), ma anche quelli delle “Argille Scagliose” (e cioè Ofioliti, Alberese, Pietraforte, Calcari a Briozoi, Macigno “che sono invece presenti nei conglomerati del Miocene superiore e Pliocene inferiore della stessa valle del torrente Borrello come pure di quelli delle adiacenti valli del Savio e del Bidente”).
I ciottoli di rocce eruttive o metamorfiche sono “ben arrotondati e levigati e raggiungono al massimo il diametro di 15 cm. Le rocce più comuni sono i porfidi quarziferi e gli gneiss; seguono i graniti, le dioriti e le quarziti; più rare invece le andesiti, le serpentiniti, le sieniti e le granodioriti”. Gli gneiss sono rappresentati da numerose varietà, i porfidi quarziferi hanno colori cha vanno dal rosso al violaceo, i graniti sono in prevalenza biancastri, mentre sono rari quelli rosati a grana grossa. L’area di provenienza è indicata nelle Alpi e Prealpi centro-orientali, soprattutto per la presenza di ciottoli di formazioni rocciose “tipiche della piattaforma neritica con episodi bioermali e biostromali del tutto simili a quelli del Veneto. In particolare si sono riscontrate alcune microfacies confrontabili con quelle note della valle del Chiampo, nei Lessini orientali”.
Le microfaune sono attribuite all’associazione a Globorotalia menardii - Globorotalia scitula ventriosa che caratterizza il Tortoniano in quanto le due specie sono presenti. Tuttavia tra le forme bentoniche ve ne sono alcune “tipiche del Miocene medio-superiore o che fanno la loro comparsa nel Tortoniano estendendosi fino ai termini inferiore e medio del Pliocene”. Per quanto concerne il trasporto dei ciottoli “è noto che in un bacino di sedimentazione di tipo fliscioide, oltre agli apporti prevalenti in senso longitudinale, vi sono anche apporti in senso trasversale dai fianchi del bacino stesso. I ciottoli di Ranchio sono appunto legati a quest’ultimo tipo di apporto. Verosimilmente il trasporto è avvenuto in tre fasi successive: 1) trasporto fluviale, 2) trasporto per onde, 3) trasporto per frane sottomarine. ”
Dal Veneto al Ferrarese il trasporto “può essere avvenuto per via fluviale e in un secondo tratto per moto ondoso. Infatti all’inizio del Tortoniano, come dimostrano i numerosi dati dei pozzi perforati dall’Agip Mineraria, gran parte del Veneto e del Ferrarese erano emersi. Solo durante o verso la fine del Tortoniano il mare invade nuovamente queste zone… l’assenza dell’Elveziano o per mancata deposizione o, molto probabilmente, per erosione ci conferma in definitiva che tutta quest’area è andata comunque soggetta ad emersione durante l’Elveziano o all’inizio del Tortoniano.
Il bacino marino tortoniano invece persisteva a S nella restante parte del bacino padano fino ad estendersi alla zona dell’attuale crinale appenninico tosco-romagnolo. Da questa parte potevano aversi, sia pure saltuariamente, apporti di argille e sabbie.
È inoltre da far rilevare che nel corso del Tortoniano il truogolo del bacino è andato via via spostandosi da SW a NE, come dimostra, per esempio, lo spostamento in tal senso delle facies arenacee. Le microfaune delle argille caotiche associate ai ciottoli nel giacimento di Ranchio ci indicano che il deposito si era formato in un ambiente vicino alla costa compreso tra il litorale ed il neritico. Da questo all’ambiente di deposito definitivo i ciottoli sono giunti attraverso una terza fase di trasporto, quella per frana sottomarina.
Con i ciottoli, lungo i pendii ripidi del bordo settentrionale del bacino, sono scivolate anche le argille che li inglobavano. In alcuni casi le argille, durante il percorso per frana, sono andate in sospensione, in altri casi invece si sono conservate integre e si sono risedimentate unitamente ai ciottoli.
È noto che i meccanismi di trasporto e di accumulo che operano entro i bacini fliscioidi sono principalemente due: le correnti di torbida e le frane sottomarine. Un trasporto di massa, tipo colata, come nel caso dei ciottoli di Ranchio, avviene su un percorso relativamente breve, inferiore a quello di una corrente di torbida. Le frane sottomarine percorrono i fianchi del bacino mentre le correnti torbide si muovono lungo il pendio longitudinale del bacino stesso”.
Se la dolomite è presente in una arenaria in piccoli granuli detritici, essa può provenire solo dal disfacimento di una dolomia. Orbene, la dolomite detritica, “manca completamente nel Macigno, è presente saltuariamente nella formazione del Mugello ed è costantemente presente nella Marnoso-arenacea”. Questa dolomite detritica non proviene dall’Appennino centrale, ma dalle Alpi orientali come sembrerebbe dimostrare l’analisi delle carote prelevate dall’Agip Mineraria.
I ciottoli di Fontanelice sono stati deposti in un ambiente marino di “discreta profondità” durante il Tortoniano. Provenivano da NNW, ma “nell’ultimo tratto del loro percorso sono stati trasportati da WNW a ESE o da NW a SE, cioè lungo l’asse della fossa”.
La composizione petrografica dei ciottoli sembra indicare un’area di provenienza prealpina lombardo-veneta, con assenza però di elementi della “Scaglia”, probabilmente meno resistenti al trasporto.

Capitolo XVI

Nicola Capuano, Gianluigi Tonelli e Francesco Veneri (39), geologi dell’Università di Urbino, hanno svolto interessanti indagini sui conglomerati contenuti nella Formazione Marnoso-arenacea affiorante nelle Marche settentrionali, nei dintorni di Frontino e di Lunano. La composizione petrografica dei vari depositi ciottolosi fa supporre che essi derivino da aree geografiche differenti. Infatti il “conglomerato di Frontino è costituito da ciottoli di rocce metamorfiche, magmatiche e sedimentarie tipiche delle Alpi orientali elaborati in ambiente fluviale, quello di Lunano è rappresentato esclusivamente da frammenti di rocce sedimentarie della serie umbro-marchigiana elaborati probabilmente in ambiente litorale”.
L’età di questi depositi risale al Tortoniano e dunque in questo periodo di tempo il bacino, in cui si formò la Marnoso-arenacea, doveva ricevere materiali che provenivano da aree diametricalmente opposte e cioè situate a SW (l’Appennino umbro-marchigiano) o a NE (le Alpi orientali) di esso.
Questi conglomerati fanno parte di successioni rocciose che attualmente sono definite “sequenze torbiditiche”. I continenti sono bordati da una piattaforma sottomarina, più o meno estesa, sulla quale, oltre ai sedimenti marini, si depositano anche i materiali detritici trasportati dai corsi d’acqua. Una scarpata separa questa piattaforma dalle piane abissali. Ricerche oceanografiche hanno permesso di individuare la presenza di profonde e strette gole (o cañons), spesso sul prolungamento delle vallate di grandi fiumi, che intagliano la scarpata continentale.
Lungo il margine della scarpata o nelle pareti dei cañons si accumulano grandi quantità di materiali detritici. Questi però sono poco stabili e possono essere rimossi quando si supera il cosiddetto angolo di declivio naturale (l’attrito interno) specialmente in occasione di qualche forte evento sismico. In questi casi avvengono delle frane improvvise. Sono ben note la grande frana che ruppe i cavi telegrafici vicino ai Banchi di Terranova (1929) ed anche quella che spezzò i cavi posti sul fondale del Mar Ligure al largo di Nizza (1979). Il materiale detritico percorse un centinaio di chilometri o più e raggiunse la Corsica.
Si tratta dunque di una grossa nuvola di materiale argilloso, sabbioso o ciottoloso, immerso in abbondante acqua che si comporta come una massa viscosa la quale scivola lungo le pareti della scarpata o dei cañons trascinando tutto ciò che incontra e continua a spostarsi perfino quando la pendenza dei fondali è minima.
Siamo dunque in presenza di un formidabile mezzo di trasporto che può trascinare grossi ciottoli su grandi distanze. Dalla rideposizione di questi materiali derivano le cosiddette sequenze torbiditiche che caratterizzano in gran parte la Formazione Marnoso-arenacea umbro-romagnola.
Interessanti depositi di ciottoli si trovano nei dintorni di Frontino e di Lunano.
I ciottoli del conglomerato di Frontino “derivano da rocce sedimentarie, da rocce eruttive e da rocce metamorfiche… Tra le rocce eruttive, oltre ad alcuni frammenti granitoidi, interessati da metamorfismo verosimilmente in facies di scisti verdi, si nota la presenza di una tonalite riferibile probabilmente all'ultima fase del plutonismo dell'orogenesi tardo-alpina e di una vulcanite alcalina a struttura porfirica con fenocristalli di biotite, plagioclasi e anfiboli. Abbondanti infine le rocce metamorfiche, rappresentate principalmente da gneiss quarzoso-feldspatico-micacei, talora granatiferi, a grana da fine a grossolana, mostranti talvolta due fasi metamorfiche. Sono presenti anche quarozoscisti, micascisti e numerosi marmi”. Elaborando le misure prese su tali ciottoli si è potuto concludere che essi sono stati sottoposti ad un regime di tipo fluviale-torrentizio.
Inoltre l’interpretazione “proposta per i conglomerati di Fontanelice e di Ranchio, viste le analogie esistenti, può essere estesa anche al conglomerato di Frontino”.
Nel conglomerato di Lunano le cose, invece, sono del tutto differenti.
Questo conglomerato, che oggi è considerato un importante orizzonte della formazione denominata Arenarie di Urbania, affiora all’incirca nelle vicinanze di un crocicchio tra la strada provinciale Fogliense e quella che da Peglio conduce a Lunano, oltrepassato il ponte. Nella parte inferiore dell’affioramento si possono osservare delle impronte prodotte da correnti di detriti che provenivano da NW.
I ciottoli hanno una forma generalmente appiattita, lamellare, e ciò indica che essi, in tempi precedenti, erano stati modellati in un ambiente litorale, probabilmente al di sotto di una falesia posta nelle vicinanze del bacino in cui poi si depositarono le arenarie.
I ciottoli “sono contenuti entro la porzione basale di uno strato arenaceo e nelle sottostanti marne per uno spessore complessivo di circa 1,5 metri”. I ciottoli presenti “nella parte sabbiosa” hanno un “orientamento preferenziale parallelo alla stratificazione”; i ciottoli contenuti negli strati marnosi “risultano invece disposti in maniera caotica e disorganizzata”. Ciò che è più importante però è che non sono mai stati osservati ciottoli cristallini. Infatti quelli presenti “sono costituiti da calcari marnosi, marne calcaree e, in minor misura, da selci nere, riferibili alle formazioni del Bisciaro e dello Schlier”.

Capitolo XVII

La teoria degli scivolamenti gravitativi di estese masse rocciose, spostate dal Tirreno all’Adriatico, era un evento che andava bene alla maggior parte dei geologi essendo “un fenomeno quanto mai vario come entità e come meccanismi ” (40). Quale causa ha determinato tali spostamenti?
Mi ero appena laureato quando apparve una nuova teoria che sembrava avere un qualcosa in più della teoria di Wegener, osteggiata da molti geologi per circa mezzo secolo. Questa nuova teoria geotettonica fece piazza pulita delle teorie allora dominanti (e sulle quali ero stato interrogato).
In precedenza l’origine delle catene montuose era spiegata con ampi spostamenti verticali delle masse rocciose, movimenti “semplici e naturali”.
La nuova tettonica delle placche metteva invece in risalto la grande importanza degli spostamenti orizzontali (o tangenziali) dei quali aveva individuato la causa.
Negli oceani della nostra Terra vi sono lunghe catene montuose, o dorsali oceaniche, ricoperte dall’acqua marina. In queste dorsali giungono continuamente dall’interno della Terra materiali che formano nuova crosta terrestre. Questa sposta lateralmente, dunque in senso orizzontale, tutte le altre parti che sono pertanto costrette a migrare. Durante la loro migrazione esse possono scontrarsi con un ostacolo (un continente, ad esempio) ed allora sono costrette a sprofondare verso l’interno della Terra dove ridiventano masse fluide; in qualche caso al contrario possono sovrascorrere sulla massa continentale e ciò dipende dalle loro rispettive densità.
Nella zona dello scontro di queste grandissime masse rocciose, i sedimenti che si trovano nel mezzo sono compressi e dislocati e danno origine a poco a poco ad una nuova catena montuosa. Da uno di tali eventi hanno avuto origine gli Appennini, prodotti dallo scontro tra una “penisola africana” e una parte dell’antico continente euro-asiatico.
Dal Tirreno all’Adriatico sono state riconosciute quattro grandi aree paleogeografiche, ossia il dominio ligure, subligure, toscano e umbro-marchigiano, ciascuno con proprie unità tettoniche. Questa successione testimonia anche il senso della genesi della catena appenninica che si è sviluppata nel tempo procedendo da ovest verso est.
È stato tutto così semplice e facile? Diciamo pure che quella che ho descritto è un’approssimazione sommaria.
In realtà le ricerche geologiche degli ultimi cinquanta anni svolte nell’Appennino umbro-marchigiano hanno avuto una parte rilevante per comprendere la paleogeografia e la genesi della catena ed hanno per di più contribuito a comprendere meglio la geologia di altre regioni non solo italiane, ma anche del Mediterraneo occidentale.
Un pozzo esplorativo, eseguito nella gola del T. Burano per individuare la presenza d’idrocarburi, ha permesso di scoprire una formazione rocciosa sconosciuta in superficie, chiamata poi Anidriti del Burano. In un certo senso è stata questa formazione a determinare la struttura tettonica della catena umbro-marchigiana.
Le ricerche sulle formazioni rocciose del Giurassico hanno permesso di ricostruire un’insospettata paleogeografia ed una dettagliata successione di orizzonti biostratigrafici ad ammoniti, che è diventata un punto di riferimento e di controllo per le altre regioni mediterranee.
Gli studi sulla regione feltresca sono proseguiti con estremo dettaglio ed oggi abbiamo una valida ricostruzione stratigrafica e strutturale. Il M. Carpegna, il Sasso Simone, il Simoncello, la rupe di S. Leo, la rupe di S. Marino sono grandi lembi esotici traslati da aree toscane verso la loro sede attuale.
Ricerche con metodologie geofisiche hanno permesso di scoprire la conformazione della crosta terrestre a grande profondità individuandone varie partizioni ed i relativi spessori, mentre indagini di superficie hanno messo sempre più in evidenza l’influenza della tettonica giurassica su quella recente.
Quali sono, invece, le ultime novità sui ciottoli cristallini?

Capitolo XVIII

Lo studio dei ciottoli ha grande importanza per un geologo.
Supponiamo di trovarci nel greto di un fiume delle Marche e raccogliamo un ciottolo, un pezzo di roccia trasportato dalle acque. Durante il trasporto ha urtato contro altri ciottoli o contro le pareti rocciose dell’alveo e per questi motivi è diventato sempre più piccolo ed ha preso questa forma d’uovo. La sua superficie è abbastanza liscia perché è stata levigata dagli urti con le particelle sabbiose, anch’esse trasportate dal fiume.
Quest’altro ciottolo, invece, è appiattito, ha la forma di una piastrella, e quest’altro è ancora tutto spigoloso.
Se li osservi attentamente, vedi che sono fatti da materiali diversi, non solo per il colore.
Prova a incidere questo ciottolo di color rosa con quest’altro più spigoloso di color marroncino. Guarda! Sul ciottolo rosa c’è ora un piccolo solco. Il ciottolo spigoloso, marroncino, è un pezzetto di selce che è più dura del calcare rosato di cui è fatto l’altro.
Cerchiamo altri ciottoli. Anche questo è un pezzetto di selce, ma di colore grigio e questo è addirittura nerastro. Ecco altri ciottoli di calcare: questo è bianco, questo è rosato, quest’altro è grigiastro.
Ah! Questo è ancora diverso. Osserva attentamente: è fatto di piccoli granellini tutti uniti fra loro da un cemento. È un ciottolo di arenaria.
Eh, sì. Nel letto di un fiume possiamo trovare ciottoli di molti tipi, differenti per la forma, per il tipo di roccia di cui sono fatti, per la levigatezza della loro superficie.
I ciottoli che troviamo in un deposito alluvionale, provengono dal bacino a monte e sono stati trasportati dal corso d’acqua. Per il geologo questa è un’esperienza quotidiana.
Non abbiamo motivo per pensare che nel caso dei ciottoli cristallini non debba essere avvenuto altrettanto. Potrebbe essere sufficiente dimostrare la congruità tra le caratteristiche petrografiche del ciottolo e quelle di una certa regione petrografica ed avremmo individuato la loro provenienza.
La presenza di grossi ciottoli in una sequenza torbiditica ha, inoltre, un grande interesse per le ricostruzioni paleogeografiche perché permette di ipotizzare la relativa vicinanza di una terra emersa.
Un ciottolo è, dunque, una sorgente di numerose informazioni. I minerali di cui è fatto possono permettere d’individuare l’area di provenienza. I fossili stabiliscono l’età e l’ambiente in cui si è deposta la roccia di cui è fatto. Le tracce lasciate dagli organismi oppure quelle prodotte durante il trasporto, permettono di conoscere in quali ambienti è transitato.
Il geologo prende varie misure sul ciottolo e ne calcola alcuni particolari rapporti (in pratica, l’indice d’appiattimento, l’indice di sfericità, la forma fondamentale). Tali rapporti sono spesso caratteristici del modellamento subito dai ciottoli in un determinato ambiente.
Ad esempio, studiando la forma dei ciottoli, Ricci Lucchi è riuscito a dimostrare che il conglomerato di Pietrarubbia, di cui sono fatte le “sculture” naturali di Pietrafagnana, è composto di ciottoli trasportati da torrenti che erodevano le masse rocciose del Montefeltro da poco emerse. Essi, infatti, hanno un indice d’appiattimento inferiore a 2,1 ciò che permette di separare i depositi fluviali da quelli marini.
I ciottoli di Pietrafagnana con gli altri elementi detritici furono in seguito deposti da correnti di torbidità in un grande conoide di mare profondo. A sua volta, tale conoide era inciso da canali.

Capitolo XIX

Riprendiamo alcune osservazioni fatte a proposito dei giacimenti di Fontelice e di Ranchio.
A Ranchio, Veggiani & De Francesco hanno trovato i ciottoli e le argille che li inglobavano. Nel conglomerato, infatti, sono incluse delle lenti argillose in cui sono presenti foraminiferi bentonici e planctonici. Le forme bentoniche sono abbondanti e indicano un “ambiente vicino alla costa, compreso tra il litorale ed il neritico”.
Pertanto il trasporto doveva essere stato dapprima fluviale, poi marino, e quindi per franamento sottomarino. Per le caratteristiche morfometriche Ricci Lucchi (41), invece, esclude che i ciottoli abbiano subito un modellamento da parte delle onde marine “su una spiaggia o su bassi fondali” e rileva che “la presenza di inclusi plastici (argillosi, siltitici, arenacei, pseudonoduli ecc.) entro lo strato [è] indicativa di trasporti in massa su fondi marini inclinati”.
Inoltre l’eventuale deposizione in un ambiente litorale avrebbe provocato la dispersione dei ciottoli in un’area vasta e ciò avrebbe impedito la loro risedimentazione concentrata sul fondo di un bacino. Il trasporto dei ciottoli fu prevalentemente torrentizio giacché gli effetti d’usura delle correnti torbide e del trasporto di massa furono modesti.
Il deposito terminale nella fossa romagnola non pone dunque eccessivi problemi di ricostruzione paleogeografica. “Mancano però indicazioni valide per ricostruire la prima parte del trasporto perché non conosciamo quella che era l’idrografia superficiale, né il punto o i punti in cui i corsi d’acqua adunarono i materiali grossolani che sarebbero poi stati immessi nel bacino turbiditico.
Perciò accanto all’ipotesi di Veggiani & De Francesco, che non può allo stato attuale delle conoscenze essere verificata con dati probanti e decisivi, se ne possono affacciare altre, supponendo ad esempio che i ciottoli derivino da aree o massicci emersi, di cui oggi si sono perse le tracce a causa di fenomeni di sprofondamento.
I dati petrografici e sedimentologici relativi ad un conglomerato risedimentato non ci portano a conclusioni certe. Essi ci danno notizie più concrete per quanto riguarda l’ultima fase di trasporto e di deposito: i ciottoli cioè sarebbero scivolati in massa, rapidamente, entro la fossa, mediante più atti di frana o colata molto ravvicinati nel tempo e tali da determinare un arresto e un accumulo pressoché istantanei dei materiali. Questi non si espandevano in una vasta area, ma al contrario restavano concentrati in grosse lenti, tasche e nastri (forse allo sbocco di antichi cañons sottomarini), venendo poi altrettanto rapidamente sepolti da turbiditi e flussoturbiditi”.
In seguito Antonio Veggiani (42) ha esaminato un affioramento di ciottoli cristallini con associati fossili di bivalvi e gasteropodi a S. Martino, località ubicata sul versante occidentale del M. Peloso, in Comune di Tavullia, situato a poca distanza da quello di Monteluro.
Si tratta di un giacimento risedimentato. L’ambiente di deposito, infatti “si riconosce non dalla tipologia dei ciottoli e dei resti organici, che sono rimasti gli stessi, ma dalle modalità della distribuzione di tutto questo materiale nell’ambito della nuova giacitura e unità sedimentaria. Si osserva una selezione del materiale con le parti più grossolane alla base e quelle più fini alla sommità dello strato e quindi una sua rideposizione per gravità inoltre si notano bene spesso, in queste stratificazioni risedimentato, blocchi argillosi strappati dal fondo del marino durante lo scorrimento veloce delle correnti torbide sottomarine. In quest’ultimo caso il materiale risedimentato costituisce un deposito molto caotico”.
Queste osservazioni di Veggiani sono importanti perché sono in netto contrasto con quanto hanno sostenuto pochi anni dopo altri due studiosi.
Alberto Castellarin e Kevin G. Stewart (43) hanno condotto, infatti, nuove indagini sui ciottoli cristallini di Monteluro, di Tavullia, del Col delle Cave e di S. Costanzo.
A San Costanzo, buona parte dei ciottoli non sono stati trovati in affioramenti, ma sparsi qua e là a causa di vari rimaneggiamenti. Un affioramento in posto, qualche tempo dopo non era più visibile perché coperto con un muro; un altro, tuttavia, sembra ancora in soddisfacenti condizioni.
A Monteluro tutti gli affioramenti, studiati dagli autori precedenti, sono stati distrutti da vari interventi d’urbanizzazione.
A Col delle Nave “resiste” il miglior affioramento di ciottoli cristallini.
A Tavullia, i ciottoli sono presenti in uno strato di sabbie grossolane in cui si possono trovare anche fossili di gasteropodi e di bivalvi.
I due autori iniziano il loro lavoro con una precisazione: l’età di questi depositi non è mai stata determinata con precisione; la loro assimilazione al Pliocene medio o superiore deve essere intesa come una stima.
In una tabella sono confrontate le litologie dei ciottoli e le possibili aree di provenienza. Essa mostra che solo nelle Alpi meridionali sono presenti tutte le formazioni rocciose dalle quali possono provenire i vari tipi di ciottoli. Nell’Appennino Settentrionale e in quello Centrale mancherebbe però una formazione rocciosa la quale giustifichi la provenienza di alcuni ciottoli corrispondenti ad un “calcare oolitico a gasteropodi”. Una “Oolite a gasteropodi” è invece presente nella Formazione di Werfen delle Dolomiti.
Alfonso Bosellini nel suo lavoro (44) dedicato alla geologia delle Dolomiti, tra i nove membri di cui si compone la Formazione di Werfen, indica, infatti, una “Oolite a gasteropodi” costituita da “banchi di calcari oolitici rossi, brecce (gasteropodi nel nucleo delle ooliti)”.
Nella Formazione di M. Quoio, in provincia di Siena, che fa parte del Gruppo del Verrucano la cui età è stata riferita al Triassico medio-superiore, sono presenti, tuttavia, ciottoli di un calcare oolitico a gasteropodi (45). I gasteropodi sono visibili sia “sulla superficie dei ciottoli”, sia in sezione sottile e “nella matrice cristallina si notano alcune ooliti sparse”.
A cercar bene si potrebbe trovare qualche banco anche nel Calcare Massiccio del M. Nerone.
Altri ciottoli che sembrerebbero indicare una provenienza alpina, sono rappresentati da una riolite porfiroide che è più simile alle rioliti permo-triassiche alpine in confronto con quelle toscane.
Il problema da risolvere è rappresentato in ogni caso dal mezzo di trasporto dei ciottoli.
I fossili dei conglomerati pliocenici del Pesarese indicherebbero, secondo Castellarin & Stewart, acque marine poco profonde o un ambiente di spiaggia. Ciò però è in contrasto con il tipo di trasporto proposto nei lavori di Veggiani & De Francesco (1968) e di Veggiani (1986). Questi autori suppongono che a partire dal margine alpino i materiali siano stati trasportati lungo valli sottomarine e cañons.
Castellarin & Stewart suggeriscono un’ipotesi che ricorda quella dei ciottoli ereditati di Rovereto. I due autori, infatti, indicano come più verosimile la provenienza dei ciottoli da formazioni rocciose mioceniche sollevate ed erose durante le fasi plioceniche dell’orogenesi appenninica.
Le sequenze turbiditiche tortoniane furono deposte in profondi bacini. È dunque possibile che grossi ciottoli siano stati trasportati dalle Alpi da correnti di torbida. Durante il Messiniano il forte abbassamento del livello marino del Mediterraneo avrebbe permesso il trasporto fluviale dei ciottoli dalle Alpi fino al margine della fossa romagnola attraverso la pianura padana.
Le principali fasi compressive in questa regione sono avvenute durante il Messiniano superiore, il Pliocene inferiore ed infine nel Pliocene superiore-Pleistocene inferiore. I conglomerati tortoniani e messiniani di provenienza alpina sarebbero pertanto emersi durante e dopo le compressioni del fronte appenninico esterno. In questo periodo l’erosione delle successioni rocciose avrebbe rimobilizzato i ciottoli alpini e favorito la loro rideposizione jn ambienti d’acque basse.
In conclusione, il carattere di depositi di acque basse delle formazioni rocciose plioceniche del Pesarese non giustifica il loro trasporto diretto dalle Alpi con un singolo meccanismo come il flusso di detriti.
È più probabile che tali conglomerati provengano da successioni rocciose mioceniche, deposte in acque profonde, che contenevano ciottoli alpini i quali sono stati rimobilizzati e deposti dagli agenti morfogenetici durante le fasi compressive del Pliocene.
Le indagini condotte sul conglomerato di Lunano (46) lasciano intravedere altre ipotesi e cioè che gli apporti ciottolosi possano essere attribuiti “ad una ulteriore zona di immissione … da ricercarsi probabilmente in corrispondenza della linea tettonica della Val Marecchia. Gli elementi grossolani di tale sedimento sono costituiti esclusivamente da litotipi della locale serie umbro-marchigiana (Bisciaro e Schlier) e mostrano una elaborazione di tipo prevalentemente litorale. Infatti le forme dei ciottoli sono molto appiattite o lamellari e l’indice di appiattimento vale, in media, 2,55 e ciò permette di correlarli con un tipo di elaborazione litorale.
Durante il Tortoniano doveva dunque esistere una terra emersa nelle vicinanze del bacino in grado di fornire tali materiali” e cioè “la Dorsale Umbro-Marchigiana”. I materiali prodotti dallo smantellamento di quest'ultima si accumulavano, senza aver subito trasporti considerevoli, lungo la linea di costa, dove erano sottoposti all'azione modellatrice del moto ondoso. Di qui infine, per opera di occasionali fenomeni franosi, venivano scaricati entro il bacino stesso, intercalandosi ai sedimenti torbiditici”.

Capitolo XX

Ritorniamo a Don Albertino Bellenghi e a Nicola Fiorani. Purtroppo il toponimo Fosso della Castelluccia non è più in uso nei dintorni di Pergola. È stata però individuata la casa di Nicola Fiorani (47) e, dunque, dei probabili terreni dove raccolse i ciottoli.
Nei dintorni affiorano le formazioni rocciose denominate Arenarie e Marne di Serraspinosa, Formazione Gessoso-Solfifera e Arenarie di Monte Turrino.
In queste tre formazioni rocciose, tuttavia, non sono stati più trovati dei ciottoli di rocce eruttive e metamorfiche. Probabilmente il giacimento originario è stato distrutto da lavori agricoli o di urbanizzazione, anche se proseguendo le ricerche forse qualche ciottolo si potrebbe ancora trovare.
Le arenarie, in effetti, contengono piccoli frammenti di tali rocce. Sulla base dei più recenti studi su queste formazioni rocciose sappiamo che probabilmente le Arenarie di Serraspinosa, per la loro granulometria molto piccola, dovrebbero essere state deposte da acque marine che avevano già abbandonato i materiali più grossolani nel bacino di Urbania. “La similitudine composizionale accertata tra le Arenarie di Urbania e le Arenarie di Serraspinosa con la Marnoso-Arenacea indica una provenienza nord-occidentale degli apporti terrigeni dalle aree alpine orientali, in accordo con lo schema proposto da Gandolfi et al. (1983) che contempla due apporti indicati come Alpino I e Alpino Il ” (48).
Le arenarie di Monte Turrino derivano, invece, dai materiali deposti in un delta-conoide parzialmente sommerso e con almeno tre lobi di cui uno diretto verso S. Maria in Carpineto, un secondo verso M. Turrino-M. Aiate ed un terzo verso Percozzone-S. Giovanni (49). Dallo studio di 44 ciottoli raccolti in una associazione arenaceo-conglomeratica affiorante in località Capannaccia, sul versante nord-occidentale di M. Turrino non risulta la presenza di ciottoli di origine eruttivo-metamorfica. La provenienza dei ciottoli è W-SW, cioè da aree umbre, e la loro morfometria indica un trasporto da parte di torrenti.
Anche se esistono ancora incertezze sulla provenienza, possiamo, invece, essere abbastanza sicuri che i ciottoli di Bellisio furono deposti nel Miocene superiore e cioè in un periodo di tempo precedente a quello del deposito dei ciottoli di S. Costanzo e di Monteluro.
Non abbiamo ancora, dunque, una conclusione certa sull’origine e sulla provenienza dei ciottoli cristallini presenti nei diversi conglomerati delle Marche.
Il loro trasporto da parte di torrenti sembra escludere lunghi corsi d’acqua che dall’area alpina o prealpina raggiungevano la fossa romagnola, abbastanza stretta e con ripidi versanti.
La forma dei ciottoli esclude, inoltre, un loro rimaneggiamento ad opera del moto ondoso e delle correnti marine.
Nel Tortoniano, ma anche nel Pliocene, la distanza tra le aree prealpine e la fossa romagnola era probabilmente superiore alla distanza attuale. Nel Pliocene la paleogeografia tra l’area prealpina e quella marchigiano-romagnola era mutata (50) a causa del sollevamento della pianura veneta e delle strutture padane le quali impedivano il collegamento diretto fra le due regioni.
Il giacimento di Monteluro ha un’età più recente dei depositi ciottolosi di Fontelice, Ranchio e Frontino.
Il giacimento di Lunano lascia intravedere due o più aree di provenienza dei ciottoli.
Nell’affioramento di S. Costanzo, descritto da Federico Cardinali, il conglomerato di ciottoli cristallini ricopre in discordanza degli strati marnosi che presentano una discreta inclinazione.
I ciottoli di Bellisio, di Chiaserna e di Appignano non sono stati più ritrovati da altri geologi e riesce difficile oggi individuare con precisione il sito in cui furono raccolti.
I ciottoli cristallini, come rilevò per primo Federico Cardinali, sono spesso molto alterati, ma alle nostre latitudini le rocce magmatiche sono quelle più resistenti all’alterazione.
Se l’area di provenienza, inoltre, fosse quella prealpina, come mai i ciottoli di dolomia sono più rari non solo dei calcari, che predominano tra tutti i tipi litologici, ma anche delle varie rocce cristalline (51) ?
Se i ciottoli dei giacimenti pliocenici sono stati eredititati da altre aree emerse, più vicine ai siti pesaresi, perché mancano ciottoli delle formazioni calcaree post-eoceniche?
L’orientamento delle microplacche che formano la catena appenninica non erano quelle attuali; esse infatti hanno subito traslazioni e rotazioni. L’inversione della subduzione nell’Oligocene superiore-Miocene inferiore (52), dapprima alpina verso est, poi appenninica verso ovest, non potrebbe avere coinvolto massicci rocciosi, per ora ignoti, nella costruzione della catena appenninica attuale?
Nelle scienze della Terra, ha ricordato Livio Trevisan (53), spesso le ipotesi più semplici non sono quelle veramente valide.

Epilogo

- Nonno, nonno, guarda che cosa ho trovato! Una sabbia rossiccia.
- È la rena terebrante, la sabbia di Adria.
- Chi è Adria?
- Vedi quella catena di monti laggiù, in mezzo al mare? Quella è Adria.
- Ma, nonno, quelle sono nuvole! Tu hai lasciato gli occhiali sotto l’ombrellone!
Questi monelli dell’era del computer non te ne fanno passare una.
- Ah! è vero. Hai ragione. Quelle strane nuvole, però, sembrano proprio Adria, la montagna scomparsa. Ti ricordi di quei ciottoli che abbiamo nel laboratorio e smartelliamo per estrarre i minerali preziosi?
- Certo che mi ricordo.
-- Alcuni geologi sostengono che facevano parte di una montagna posta proprio là, nel mezzo del nostro mare.
A proposito, ti ho mai raccontato la storia del ciottolo di don Albertino?

NOTE
(21) Bombicci (1881) - memoria presentata all’Acca¬demia delle Scienze di Bologna.
(22) De Launay L. (1901) - Métallogénie de l’Italie ; (1913) - Traité de Métallogénie - Gites metallifères, Il, p. 645.
(23) Steimann G. (1907) - Alpi e Appennino. Comunicazione alla 52° Riunione generale della So¬cietà Geologica Tedesca, 9 agosto 1907, Basilea. Vedi inoltre: Trevisan L. (1984) – Autoctonismo e faldismo nella storia delle idee sulla tettonica dell’Appennino settentrionale. Vol. giub. I centenario S.G.I., pp. 183-197.
(24) In Trevisan L. (1984) – Autoctonismo e faldismo nella storia delle idee sulla tettonica dell’Appennino settentrionale. Vol. giub. I centenario S.G.I., pp. 183-197.
(25) Gortani M. (1928) – Ipotesi e teorie geotettoniche. Giorn. Geol., v. 3, pp. 3-131.
(26) Bonarelli G. (1930) – Interpretazioni strutturali della regione feltresca.Boll. Soc. Geol. It., vol. 48, n. 2, pp. 314-316.
(27) Passeri G. B. (1759) - Diss. IV
(28) Selli R. (1954) – Il bacino del Metauro. Gior. Geol., vol. 24.
(29) Signorini R. (1946) – Autoctonia e alloctonia dei terreni dell’Appennino Centrale e Settentrionale. Atti Acc. Naz. Lincei, s. 8, v. 1, n. 1, p. 99.
(30) Ruggeri G. (1958), p. 9.
(31) Ruggeri G. (1958), p. 7.
(32) Ruggieri G. (1958), p. 10-11.
(33) Lungo la mulattiera che da Ponte conduce al M. Bandirola (Veggiani, 1955).
(34) Ruggeri G. (1958) – Gli esotici gravitativi della Val Marecchia.
(35) Merla (1957) – Essay on the geology of the northern Apennines with a geological map 1:1.000.000. Firenze. “Again to the North-East, in the Emilia and Romagna area, the marnoso-arenacea passes to the Helvetian clastic deposits of the Po valley. On this side, the boundary of the trough is not so definite, probably owing to more abundant clastic supply from both sides of the Po gulf”. (citato da Ruggieri, 1958, p. 27, nota).
(36) Ricci Lucchi F. (1969) – Composizione e morfometria di un conglomerato risedimentato nel Flysch miocenico romagnolo (Fontanelice, Bologna). Giornale di Geologia, v. 36 (1968), pp. 1-47.
Veggiani A. (1955) – Intercalazioni di ciottoli cristallini nella formazione marnoso-arenacea romagnola. (Nota preliminare). Giornale di Geologia, v. 36 (1968), pp.
Veggiani A. & De Francesco A. (1969) –I ciottoli inclusi nelle arenarie tortoniane di Ranchio (Forlì). Giornale di Geologia, v. 25 (1955), pp.178-181.
(37) Ricci Lucchi F. & D'Onofrio S. (1967) - Trasporti gravitativi sinsedimentari nel Tortoniano dell'Appennino Romagnolo (Valle del Savio). Giornale di Geologia., v. 34, n. 1, pp. 29-72. Tuttavia Rizzini & Passega (1964) attribuiscono tali depositi a undaturbiditi. Vedi Rizzini A. & Passega R. (1964) - Evolution de la sédimentation et orogènese, vallée du Santerno, Apennin Septentrional. In Bouma & Brouwer (ed.), Turbidites, pp. 65-74.
(38) Sia sulla sinistra del torrente Borello fino a Petrella che sulla destra, a sud del fosso di Campiano (Veggiani & De Francesco, 1969). I due Autori indicano inoltre un affioramento situato “a SE di Ranchio, sulla destra del Rio Cella, lungo la strada Tezzo-Ranchio, ad un centinaio di metri dal ponte nuovo sul torrente Borrello. I ciottoli sono anche diffusi lungo la mulattiera che dal vecchio ponte sul Borello, a SE di Ranchio, porta al Monte Bandirola”.
(39) Capuano N., Tonelli G. & Veneri F. (1987) – Significato paleogeografico delle intercalazioni ciottolose nella marnoso-arenacea feltresca (Marche settentrionali). Boll. Soc. Geol. It., v. 106, pp. 13-18.
(40) Trevisan L. (1984) – Autoctonismo e faldismo nella storia delle idee sulla tettonica dell’Appennino settentrionale. In: “Cento anni di geologia italiana”. Società Geologica Italiana, vol. giub., p. 192.
(41) Ricci Lucchi F. (1965) – Alcune strutture di risedimentazione nella formazione marnoso-arenacea romagnola. Giorn. Geol., v. 33, n. 1, pp. 265-283; Ricci Lucchi F. & D'Onofrio S. (1967) - Trasporti gravitativi sinsedimentari nel Tortoniano dell'Appennino Romagnolo (Valle del Savio). Gior. Geol., v. 34, n. 1, pp. 29-72.
(42) Veggiani A. (1986) – L’interesse geologico dei conglomerati pliocenici di Monteluro e Monte Peloso nel territorio di Tavullia. In Bischi D. (a cura di):Tavullia fra Montefeltro e Malatesti. Atti del Convegno, Tavullia 15-16 settembre 1984. Comune di Tavullia.
(43) Castellarin A. & Stewart K. G. (1989) – Exotic clasts in a Pliocene conglomerate near Pesaro have an alpine source. Boll. Soc. Geol. It., v. 108, pp. 607-618.
(44) Bosellini A. (1996) – Geologia delle Dolomiti. Vol. pp. 192. Casa Editrice Athesia Bolzano.
(45) Cocuzza T., Lazzaretto A. & Pasini M. (1975) – Segnalazione di una fauna triassica nel conglomerato del M. Quoio (Verrucano del Torrente Farma, Toscana meridionale). Riv. Ital. Paleont. Strat., v. 81, pp. 425-430. Inoltre vedi Castellarin A. & Stewart K. G. (1989), p. 614.
(46) Ardanese L. R., Capuano N., Chiocchini U., Cipriani N., Martelli G., Tonelli G., Veneri F. (1987) - Studio delle arenarie di Urbania e di Serraspinosa come contributo alla conoscenza dell'evoluzione paleogeografica del margine adriatico durante il Miocene medio-superiore. Giorn. Geol., s. 2, v. 49, n. 1, pp. 127-144, f. 15, tab. 6.
(47) Ringrazio sentitamente il Dr Alessandro Crinelli, direttore della Biblioteca Comunale di Pergola, per la cortese collaborazione nelle ricerche.
(48) Ardanese L. R., Capuano N., Chiocchini U., Cipriani N., Martelli G., Tonelli G., Veneri F. (1987) - Studio delle arenarie di Urbania e di Serraspinosa come contributo alla conoscenza dell'evoluzione paleogeografica del margine adriatico durante il Miocene medio-superiore. Giorn. Geol., s. 2, v. 49, n. 1, pp. 127-144, f. 15, tab. 6.
(49) Centamore E., Chiocchini U., Ricci Lucchi F., Salvati L. (1976) – La sedimentazione clastica del Miocene medio-superiore nel bacino marchigiano interno tra il T. Targo ed Arcevia. Studi Geol. Camerti, v. 2, pp. 73-106, t. 3, f. 19, tab. 7.
(50) Pieri M. & Groppi G. (1981) – The structure of the base of the Pliocene-Quaternary sequenze in the Subsurface of the Po and Veneto Plains, the Pedeapennine Basin and the Adriatic Sea. In Structural Mode lof Italy a cura di Praturlon A., C.N.R., PP. 409-415.
(51) Cardinali F. (1880) – Cenni geologici sui dintorni di Pesaro, p. 27.
(52) Doglioni C., Mongelli F., Pialli G. (1998) - Boudinage of the alpine belt in the apenninic back-arc. Mem. Soc. Geol. It., v. 52, pp. 457-468, f. 7.
(53) Trevisan L. (1984) – Autoctonismo e faldismo nella storia delle idee sulla tettonica dell’Appennino settentrionale. In: “Cento anni di geologia italiana”. Società Geologica Italiana, vol. giub., pp. 183-197.


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 07.09.2012
    Ultima modifica: 11.09.2012

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