Carnevale, feste, tradizioni e lavoroCarnevale, feste, tradizioni e lavoro

La balneazione a Fano dal 1800 sino ai primi del 1900

Indumenti integrativi

Indumenti e calzature a Fano e a Fossombrone


Ci sono, nel nostro dialetto fanese, due verbi il cui significato è ormai sconosciuto a molti, specie ai più giovani: arcumudâ, arciaplâ.

Prima di gettare in disuso completamente, o di passare ad altro utilizzo, un oggetto veniva più volte riparato a seconda anche delle possibilità del possessore. Vi erano, non molti anni fa, artigiani che sapevano riparare tutti gli oggetti, che una volta erano costruiti a mano.

Il sarto, ad esempio, o anche la donna di casa, si adattava a rammendare e a mettere pezze sulle parti consunte degli abiti. Pochi potevano permettersi il lusso di gettare un paio di pantaloni quando le parti soggette a maggiore usura diventavano trasparenti o addirittura si bucavano. Ci si metteva una pezza; ai ragazzi poi, se non c'era la stoffa dello stesso colore, se ne trovava una che «ci dicesse».

Per eseguire un lavoro «ben fatto» si toglieva l'intera parte «posteriore», si rifaceva, ai calzoni, il «cavallo» nuovo. Si notava il colore diverso della stoffa per un pò di tempo, ma poi tutto si eguagliava. Altre pezze venivano applicate, non di rado, anche all'altezza del ginocchio.

Ai buchi piccoli si rimediava con il rammendo casalingo. Quando si comperava la stoffa per un vestito (è da ricordare che i vestiti erano confezionati dai sarti e cuciti a mano) si teneva conto di acquistarne qualche centimetro in più per serbarne «l'avanzo», al fine di avere sempre pronta un po' di stoffa uguale per applicare le «pezze».

A volte, se il colore di un vestito sbiadiva si ricorreva al «tintore», il quale riusciva a far prendere una nuova tinta all'indumento. Quando le maglie di lana erano consunte in alcune parti la donna di casa le «disfaceva», ne riprendeva i pezzi di filo che annodava gli uni agli altri, li raccoglieva in matasse che, se del caso, mandava alla tintoria. Col filo così ottenuto le mamme confezionavano a mano, con i «ferri», altre maglie. Se c'erano ragazze in casa dovevano imparare, fra l'altro, anche i lavori di maglieria.

Il vestito senza pezze era detto il vestito della domenica, o delle feste, che si custodiva con ogni attenzione e che, dopo l'uso per la Messa, subito si riponeva nell'armadio.

Il calzolaio aveva un gran da fare a riparare le ciabatte, gli zoccoli anche con copertoni vecchi delle biciclette, e le scarpe.

Alle scarpe si rifacevano i tacchi, ci si applicava anche una piastrina di ferro, specie a quelle dei ragazzi, sulla parte esterna più soggetta all'usura, e le «brocche» sulle piante.

Le mezze piante venivano sostituite anche più di una volta sulle stesse scarpe. Se si voleva rimettere a nuovo il paio di scarpe si faceva la «rimonta», cioè si scuciva quella usurata sostituendo tutta la parte anteriore, purché il resto fosse sufficientemente solido. Quando si indicava un calzolaio si diceva: «arcòmuda e fa anca da nòv!» cioè: ripara e confeziona anche le scarpe nuove! Non tutti i calzolai erano in grado di confezionare scarpe nuove. Quando le scarpe erano ormai tanto mal ridotte il cliente che non aveva i mezzi per comprarle nuove diceva al calzolaio: «Dai un'arciaplèta!», cioè un'aggiustata come meglio potesse.

Così per il falegname ed altri mestieri, c'era chi riparava solo e chi anche costruiva gli oggetti nuovi, ma tutti riparavano. Il riparare non era un lavoro umiliante com'è considerato oggi, ma un'arte quasi, una vera maestria. Si diceva: «Ch'el tèi arcomuda achsì ben che la roba la fa arnì nova». (Quel tale aggiusta così bene che la roba la fa diventare nuova).

Ogni oggetto si poteva riparare. Di una persona ricca che si voleva esaltare, mettere in evidenza l’abbondanza di cui disponeva, si diceva: «Quel si ch'è rich én porta gnent d'arcumudat, manca i calset» (quello si che è ricco, non indossa nulla che sia aggiustato, nemmeno i calzini).

Oggi non si riparano più certi oggetti, perché non conviene, cioè il tempo-lavoro necessario costerebbe di più dell'oggetto nuovo. Ma allora, il tempo-lavoro non si calcolava, le ore lavorative della giornata erano tante: dall'alba al tramonto e si pagavano poco; la macchina non c'era a produrre in fretta e a poco prezzo, si doveva eseguire qualsiasi lavoro a mano.

Non saprei dire se l'attività lavorativa per costruire oggetti nuovi fosse maggiore o minore di quella dedicata alle riparazioni.

Bisogna mettere in evidenza che ogni oggetto, sia esso di stoffa che di metallo, messo fuori uso, veniva riutilizzato e c'erano persone che giravano per le case ad acquistarli; ai margini delle strade non si vedevano oggetti vecchi abbandonati. Vi era un altro modello di pulizia e un diverso modo di essere sporchi. Quindi la città, la nostra come tante altre, si presentava con l'aspetto del suo tempo, con i suoi lati positivi e i non pochi negativi.

Da: "Fano dentro le mura", AMADUZZI, 1984


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 21.03.2005
    Ultima modifica: 03.03.2011

Nessun documento correlato.


La balneazione a Fano dal 1800 sino ai primi del 1900

Indumenti integrativi