Carnevale, feste, tradizioni e lavoro
Modi e condizioni di vita dei contadini nella zona di Fano sino al 1950-1965
Il sistema della coltivazione della terra a mezzadria può essere considerato come
un'evoluzione della servitù della gleba medievale. Le sue origini sono da ricercare nell'organizzazione agricola dell'epoca romana basata sull'uso degli schiavi e entrata in crisi al momento in cui risultò antieconomico il mantenimento degli schiavi.
Risultò più vantaggiosa allora la trasformazione degli schiavi in lavoratori
"liberi", del cui mantenimento il padrone non aveva più la
responsabilità, pur restando essi legati alla terra.
Per il lavoro di coltivazione dei campi per conto del padrone, essi venivano
compensati in prodotti o mediante la concessione della coltivazione di un
appezzamento per uso della propria famiglia.
Il sistema della mezzadria, che si consolidò nei secoli successivi, consisteva nella concessione di un podere con
casa a una famiglia di coloni, che riceveva da parte del padrone una metà dei prodotti.
Esso si rivelò talmente funzionale che resistette immutato per più secoli fino quasi ai
nostri giorni, legando il colono alla terra così indissolubilmente che una famiglia poteva restare nello stesso podere anche per più secoli.
Tradizionalmente, i proprietari della maggior parte delle terre coltivate appartenevano alla
nobiltà, a conti e duchi (a Fano: conti Saladini e Castracani degli Antelminelli, duchi di Montevecchio) o alla Chiesa (l'Arcivescovado di Urbino aveva possedimenti fino al comune di Montemaggiore).
Con l'Unità d'Italia e l'estensione della legge Siccardi sulla
"manomorta" alle nuove regioni, gran parte dei poderi di cui la
Chiesa era entrata in possesso attraverso i lasciti nel corso dei secoli venne
confiscata e venduta all'asta (a prezzi stracciati, dato che solo pochi erano
disposti a incorrere nella scomunica che la Chiesa aveva comminato agli
acquirenti).
Coi primi decenni del '900,accanto ai proprietari tradizionali, cominciò a
formarsi una piccola borghesia agraria che comprendeva artigiani e bottegai
benestanti, fattori arricchiti (spesso alle spalle del proprietario incurante), emigranti rientrati con un gruzzolo e intenzionati a vivere di rendita, qualche mezzadro diventato coltivatore diretto.
Fino alla prima guerra mondiale i mezzadri appartenevano a famiglie patriarcali, formate dalle famiglie di due o
tre fratelli (alcuni dei quali sposavano spesso sorelle) con figli e parenti vari. La famiglia patriarcale, che conduceva un podere di quindici - trenta ettari, poteva superare anche le venti persone ed era governata da un "capoccia", solitamente il fratello maggiore.
Il capoccia aveva autorità su tutta la famiglia che governava con pugno di ferro
provvedendo a suo discernimento alle necessità dei familiari e gestendo in modo
accentrato il denaro: gli altri familiari obbedivano ai suoi comandi e
lavoravano senza praticamente vedere mai un soldo. Questa condizione,
tradizionalmente subita a causa della dura lotta per la sopravvivenza, in tempi meno grami cominciò a essere
contestata dall'interno provocando la sua trasformazione nella famiglia nucleare composta dai due genitori e dai figli, con qualche anziano.
Di conseguenza aumentò il frazionamento dei poderi la cui superficie media si aggirava sui cinque ettari: con qualche effetto negativo sull'efficienza economica, dato che i piccoli poderi non potevano disporre degli attrezzi più costosi e delle risorse per una più razionale organizzazione del lavoro.
Amministrazione
I poderi di maggiori dimensioni disponevano di un fattore che amministrava le
entrate e le uscite, presentava un rendiconto annuale, liquidava regolarmente
al mezzadro la quota dei ricavi dl sua spettanza, forniva indicazioni di
carattere agronomico al mezzadro.
Nei poderi più piccoli esisteva al massimo un sensale che si occupava della sola
compravendita del bestiame. L'amministrazione era tenuta dal proprietario, che
non possedeva solitamente più di un podere o due e svolgeva una sua propria attività artigianale o commerciale; di
conseguenza registrava le entrate quando si ricordava e chiudeva i conti a ogni morte di papa: con
conseguenti immaginabili diatribe.
Economia
Le scarse risorse finanziarie di cui disponeva la famiglia erano gestite secondo criteri di massima parsimonia, fino al limite della privazione, evitando ogni spesa non strettamente necessaria.
Nelle campagne sopravvivevano le caratteristiche dell'economia curtense dominanti nel
medioevo: il podere tendeva a permanere un'entità economica autosufficiente, con scarsi scambi con l'esterno.
Non solo i generi alimentari venivano prodotti quasi interamente entro il podere, ma
anche la maggior parte dei materiali occorrenti per gli attrezzi quotidiani
(cesti, scope, sedie, tessuti, corde, attrezzi agricoli, maglie, zoccoli)
provenivano da piante o da animali che crescevano nel podere.
Il denaro risparmiato a prezzo di duri sacrifici veniva messo da parte per affrontare
spese straordinarie quali malattie, infortuni, funerali, matrimoni. Oltre che
dalle preoccunazioni per il futuro, l'"avaro zappator" era
condizionato da un'abitudine ancestrale al risparmio, anche quando non ve
n'erano ragioni evidenti. Il denaro messo da parte veniva depositato su
libretti di risparmio o investito in buoni fruttiferi o prestato a qualche
parente che piangeva miseria, senza interessi, e con rischio di perdita del
capitale.
Se tutto andava bene ci pensavano le periodiche svalutazioni a tosare i risparmiatori,
senza che nemmeno se ne accorgessero.
Pochi risparmiavano con l'obiettivo di trasformarsi in coltivatori diretti, sia per
l'avversione a contrarre debiti sia per la preoccupazione di dover affrontare i
problemi derivanti dalla proprietà: tasse, eredità, avvocati.
Per tradizione, probabilmente di origine romana, fino agli anni '50 erano assoggettati a prestazioni d'opera gratuite
per la manutenzione delle strade maestre della zona. Secondo il numero di paia
di vacche o di uomini validi a ogni colono era imposto un certo numero di
carichi di ghiaia da trasportare dalla chiusa del Metauro e da depositare in
mucchi, a distanze stabilite, ai lati della strada; oppure, in alternativa, un
certo numero di giornate di lavoro di pale e carriola per la stenditura dei
mucchi di ghiaia. Tale consuetudine, che nessuno si era mai sognato di
contestare, era chiamata "fazione" ("fasión").
Meno frequenti erano le corvées a favore del padrone (nel palazzo, in cantina, nel parco).
Ai proprietari di più antica tradizione, e solo un po' meno ai fattori e ai proprietari di più recente origine, detti
talvolta spregiativamente "pidocchi rifatti", veniva tributata una
reverenza spesso confinante col servilismo (cappello in mano), un po' per un
radicato costume di sudditanza, un po' per la venerazione che la ricchezza
ispirava, un po' per il timore che la caduta in disgrazia avrebbe potuto
portare allo sfratto dal podere ("Quant el padrón t' ha pres in uggia da
la pusion te toca fuggia"). L'eventualità di perdere il podere e, non
trovandone un altro, di "finire a casa a nolo" era la più temuta dal
mezzadro: i "casanti", infatti, stavano ancor peggio di loro. Molti
casanti facevano letteralmente la fame e sopravvivevano "bazzicando",
cioè dando una mano, presso famiglie di mezzadri, presso le quali collocavano i
figli più grandi come garzoni, per modesti compensi in viveri (alcuni erano mendicanti).
Quando il padrone era il parroco il timore reverenziale veniva rafforzato da una seconda motivazione.
La soggezione di fronte al padrone non impediva a molti mezzadri di sottrarre alla
spartizione qualche cassa d'uva o qualche rocciata di pannocchie.
Era anche un modo per risarcirsi della metà del maiale che era dovuta al padrone, delle
paia di capponi che gli spettavano per Natale e delle pollastre di Ferragosto,
di primizie che gradiva in ogni stagione. Mentre i padroni di un gran numero di
poderi o di più antico lignaggio erano tolleranti e liberali, quelli privi di
storia e di grandi proprietà, sottoponevano spesso i mezzadri a varie angherie,
fino a voler dire la loro sulla via da far intraprendere ai ragazzi, ormai non
più condannati come un tempo a ripetere il mestiere del padre; non gradivano
che i ragazzi scegliessero un mestiere o studiassero: sarebbero state braccia
sottratte all'agricoltura.
All'arrivo del padrone, i ragazzi che si avvicinavano curiosi venivano fatti allontanare, per non
impressionarlo sfavorevolmente: tanti ragazzi infatti significavano tante
bocche che piluccavano i grappoli dai filari.
Disdetta
La disdetta costringeva il mezzadro a cercarsi un altro podere in tempi brevi;
poteva essere determinata anche da motivi futili come quello di voler affidare
il podere a un mezzadro ritenuto più idoneo.
Il rischio era di finire a casa a nolo o in un podere meno gradito, come quelli
con terreno ghiaioso della sponda sinistra del Metauro o magari quelli delle
colline (i mezzadri della pianura avevano una invincibile avversione per i
poderi di collina, la "terra ammucchiata" che rendeva il lavoro più
gravoso a causa delle salite).
Il mezzadro uscente aveva diritto a un compenso per la parte di sua spettanza
delle "scorte vive" (bestiame) e delle "scorte morte"
(attrezzi acquistati a metà col padrone, pagliai, letamaia).
Le stime e le misurazioni erano eseguite da fattori o da periti agrari.
Il trasloco, che si effettuava in autunno mediante il biroccio, era sempre una
circostanza triste date le abitudini e i legami affettivi che legavano la
famiglia al podere e alla casa (vedere in proposito il film "L'albero degli zoccoli").
Il sorgere del movimento operaio, sindacale, cooperativo, a cavallo fra l'800 e il '900, aveva destato fermenti
sociali anche nelle campagne, innescando una lunga vertenza per la revisione dei patti colonici.
Pur con la forte limitazione del diritto di voto, nel 1909 lo schieramento riformatore rappresentato dal radical socialista
Giovanni Ceraolo (detto "il forestiero") era prevalso su
quello conservatore guidato dal fanese Ruggero Mariotti (detto "il
deputato muto") liberal clericale (al quale è intestata una via a Fano).
Fra le rivendicazioni più importanti dei mezzadri vi erano la disdetta per giusta
causa e un sistema pensionistico; quest'ultimo arrivò ad essere messo
effettivamente in piedi col versamento dei primi contributi nel primo dopo
guerra.
L'avvento del fascismo spazzò via ogni speranza di evoluzione dei patti colonici: tra il
fortissimo sindacato, fascista, degli agrari e quello, ugualmente fascista, dei
mezzadri, l'accordo fu trovato rapidamente e la vertenza bloccata per un
trentennio.
I nuovi patti colonici furono sottoscritti in occasione della visita, e di uno storico
discorso, del duce a Pesaro, del quale i giornali dettero l'annuncio con la
pubblicazione di un telegramma del seguente tenore: "Il Duce a Pesaro -
Rapida conclusione patti colonici - Mi conferma grande fede e spirito fascista
codesta nobilissima popolazione"
I patti confermavano nella sostanza il sistema della mezzadria tradizionale così ben collaudato nel corso dei secoli, riconoscendo al proprietario il diritto di disdetta anche senza giusta causa ed eliminando l'embrione di sistema previdenziale che andava nascendo (in base alla teoria che il mezzadro non è un dipendente ma un "socio" del padrone).
L'operazione fu un gioco da ragazzi. I mezzadri, analfabeti in larga misura, disorganizzati, abituati alla sottomissione da secoli di miseria e di oppressione, terrorizzati da squadracce di barabba di paese, non sarebbero stati in grado di esprimere alcun dissenso.
La vertenza per la riforma dei patti colonici riprese, con una vasta mobilitazione delle campagne, con scioperi e manifestazioni, nel secondo dopo guerra e si concluse col famoso "Lodo De Gasperi".
I nuovi patti colonici stabilivano la suddivisione dei prodotti non più al 50% fra padrone e mezzadro, ma al 40% contro il 60%; prevedevano la giusta causa per la disdetta, incentivi per l'acquisto del podere da parte del mezzadro, una buonuscita concessa al mezzadro che lasciasse volontariamente il terreno, consistente nella. proprietà della casa e di un piccolo appezzamento o in un equo indennizzo.
Troppo tardi. Di lì a pochi anni si sarebbe verificata una migrazione dalle campagne di proporzioni bibliche. I mezzadri emigrarono in massa verso l'estero (Germania, Svizzera, Belgio, Sud America) e, all'interno, verso le aree industrializzate del nord.
Prima vennero abbandonati i poderi delle colline, poi anche quelli della pianura, con l'eccezione di quelli condotti da coltivatori diretti (almeno fino a quando sopravvivono gli ultimi contadini anziani).
La maggior parte delle case coloniche sono ora in stato di abbandono; alcune sono state ristrutturate come seconde case.
I terreni sono tornati alla coltivazione estensiva, gestita da privati o da cooperative, che utilizzano come braccianti i superstiti ex mezzadri.
Il paesaggio ne è uscito profondamente trasformato, caratterizzato da vaste estensioni di terreno privo di filari di viti e degli alberi un tempo più diffusi, come olmi, gelsi, mandorli (sopravvivono alcune querce grazie a leggi protettive).
Mezzadria e fascismo
La chiara presa di posizione del fascismo a favore dei proprietari terrieri (che ne avevano appoggiato l'ascesa) non impedì alla macchina propagandistica del regime l'esaltazione retorica dei valori della ruralità e della gente dei campi come espressione genuina della stirpe. Dei contadini venivano celebrate "virtù" quali la sanità morale e fisica ("Ma guardate che campioni - vengon fuor da li burroni"), il senso della disciplina e il rispetto dell'autorità.
l'abitudine a sopportare la fatica e gli stenti ("Vi piace la vita comoda? - Nooo!"), lo spirito di sacrificio e il valore in guerra che ne faceva ideali strumenti per i sogni di gloria dei detentori del potere ("Io ve l'ho detto: - Sappiamo adoperar vanga e moschetto!"). Il valore della ruralità andava pertanto preservato come patrimonio prezioso della nazione utilizzando mezzi quali le leggi contro l'emigrazione (sostituita con la colonizzazione dei territori d'oltremare e delle paludi bonificate; contro l'urbanesimo col blocco dei trasferimenti verso le città) a favore dell'incremento demografico, con gli incentivi per le famiglie numerose.
Lo stesso capo supremo vantava le sue origini contadine ("I miei antenati erano contadini che lavoravano la terra") e si faceva fotografare mentre trebbiava a dorso nudo nelle terre bonificate. Nell'ambito di questa politica va collocata anche la realizzazione di Metaurilia che ebbe il merito di recuperare imezzadri ridotti a braccianti disoccupati trasformandoli in agricoltori.
Ma l'obiettivo principale del regime era quello di legare, per il presente e per l'avvenire, i contadini alla terra, proteggendoli per quanto possibile dal contagio di idee e di costumi della città e della fabbrica. Furono perciò incoraggiate le associazioni delle "Massaie rurali", i gruppi folcloristici regionali, la letteratura strapaesana (vedi Fabio Tombari).
Scuola rurale
Nei libri di stato per la scuola elementare gli argomenti relativi alla vita dei campi erano numerosi.
I valori educativi che vi venivano esaltati erano la parsimonia e la vita semplice, la rassegnazione al proprio stato contrapposta all'incontentabilità e
all'aspirazione alla promozione sociale, la laboriosità, (" e c'insegna la
formica - il dover della fatica"), il dovere dell'obbedienza verso gli
adulti e le figure di autorità (da quelle locali alle più alte). Solo in
apparenza la scuola rurale era continuatrice delle esperienze del movimento
pedagogico delle scuole rurali, molto vivace all'inizio del secolo
(Socciarelli, Boschetti Alberti, Franchetti, Maltoni).
Mentre questo movimento mirava al riscatto
delle plebi rurali e alla valorizzazione del mondo contadino, attraverso
l'introduzione di metodi didattici più aderenti all'esperienza dei ragazzi di
campagna e più coinvolgenti, il ruralismo pedagogico di marca fascista mirava a
ribadire e perpetuare la sudditanza
degli eredi della servitù della gleba, vincolando alla realtà ambientale
l'orizzonte mentale dei ragazzi e impedendo loro la presa di coscienza della
loro condizione esistenziale.
L'EIAR, la RAI del tempo, attraverso i primi apparecchi radio che comparivano
nelle scuole di campagna, e recavano attorno all'altoparlante la scritta
"Radio rurale", trasmettevano programmi appositi per le scuole
rurali.
I rapporti esterni della famiglia colonica
Casanti
Abitavano in paese in case "a nolo" ed erano in gran parte contadini che
avevano perso il podere ("la pusión") senza aver trovato un altro
lavoro; molti si trovavano al limite della sopravvivenza.
In vari modi gravitavano attorno alle famiglie coloniche, presso le quali
"bazzicavano", cioè davano una mano nel lavoro dei campi in cambio di
un piatto di minestra e di un fascio d'erba per i conigli o il vitello che
allevavano; altri rubacchiavano nei campi confinanti con le strade (pannocchie,
uva, erba) o nei pollai; altri formavano gruppi organizzati per i lavori
stagionali (mietitura e scartocciatura) e costituivano l' "opera"
("opra"), compensata con parte del raccolto.
Molti ragazzi, una volta cresciuti, venivano mandati dai casanti "per
garzone" presso famiglie coloniche in cambio di vitto, alloggio e modesti
compensi in natura alle famiglie (più raro era il caso di ragazze che venivano
mandate "per servizio" in città o nelle famiglie coloniche).
Artigiani
Pur eseguendo in proprio vari lavori artigianali e di riparazione, ogni famiglia colonica si serviva di professionisti: fabbro, sarto, calzolaio. Questi artigiani venivano generalmente compensati a cottimo in natura (solitamente grano o granoturco).
Professionisti
Venivano compensati a cottimo anche il veterinario e il flebotomo (praticone sostituto del medico); le famiglie più grandi erano convenzionate anche con la lavatrice e il becchino o, in qualche caso, il castratore di maialini ("castrin").
Parenti
Coi parenti o coi vicini ci si accordava per lo scambio di manodopera in certe occasioni quali: l'aratura o il trasporto di carichi pesanti che richiedevano due paia di vacche, la mietitura, la vendemmia, il trasporto del foraggio e la costruzione dei pagliai, la trebbiatura, la macellazione del maiale, il parto difficile di una vacca.
Comune
Pene severissime erano previste per chi evadeva il dazio sulla vendita di vino e
sulla macellazione del maiale, che il Comune appaltava a privati.
Da ogni famiglia di contadini o di casanti il Comune esigeva il "focatico" (o
imposta sul focolare).
Ai soli contadini il Comune imponeva la corvée dell'inghiaiatura annuale delle strade
maestre. Per accordi con il cantoniere locale il contadino poteva scegliere se
trasportare un numero di birocci di ghiaia proporzionale alle paia di vacche,
prelevate dal fiume, oppure un numero di giornate di lavoro per la stenditura
della ghiaia proporzionale al numero degli uomini adulti della casa.
Non pare che i contadini ricevessero dal Comune qualche servizio in cambio delle imposte
e delle corvée, a parte l'occorrente per il funzionamento delle scuole
elementari.
Ambulanti
Visitavano con regolarità le case coloniche vari ambulanti muniti di bicicletta con
portapacchi o di carettino trainato da bicicletta: il pescivendolo, il
pollivendolo, lo straccivendolo.
Il pollivendolo acquistava polli e uova, ma vendeva anche formaggio pecorino,
castagne, olive da marinare.
Lo straccivendolo acquistava stracci, ferracci, pelli di coniglio essiccate,
tartaro delle botti; stagnava i tegami di rame; riparava gli ombrelli; riparava
i tegami di terracotta cucendo insieme i cocci con punti di filo di ferro (dopo
aver praticato i fori col trapano a oscillazione).
Saltuariamente, secondo le stagioni, facevano il giro della case: il sediaio (che fabbricava
sedie complete in loco (o rifaceva i sedili rotti con corda di paglia palustre
("sgarza"), il venditore di sgarza, il pettinatore di lana (che
trasformava la lana in cordoni pronti per la filatura), il venditore di cappelli
di paglia, il venditore di scolapasta di vimini, di straccini per fare la
conserva, di crivelli.
Mendicanti
Mendicanti e handicappati ("infelici") comparivano una volta o due all'anno, al tempo del raccolto del grano o del granoturco; accettavano anche due fette di pane, ma preferivano derrate conservabili e vendibili.
Parrocchia
Il parroco si recava in tutte le case coloniche in precise occasioni: la
benedizione delle stalle a S. Antonio, il 17 gennaio (e lasciava un'immagine
del santo da inchiodare all'interno della porta della stalla), per la
benedizione delle case prima della Pasqua (seguito dal sagrestano con un grosso
cesto per la raccolta delle uova), dopo la trebbiatura per la raccolta
delle "decime" (grano), per somministrare l'estrema unzione ("l'oj sant") ai moribondi.
Oltre che a S. Antonio i contadini erano devoti alla Madonna delle Grazie di Cartoceto e
della Madonna di Loreto; invocavano inoltre San Biagio per il mal di gola,
Sant'Emidio per la protezione del terremoto, San Giobbe per la salute dei bachi
da seta.
Contro i topi o gli insetti infestanti sollecitavano dal sacerdote il rito della
"condanna", per il superamento di uno spavento il rito della
"lettura del Vangelo".
I fedeli partecipavano molto numerosi alla Festa del Patrono, alle processioni per la
festa del Crocefisso, delle Rogazioni, per invocare la pioggia.
Soprattutto le donne assistevano alle Quaranta ore, al Mese di Maria, alle Missioni.
I pochi individui, uomini, che non si recavano mai in chiesa passavano per tipi strani da tollerare con pazienza.
Dettaglio scheda
-
Data di redazione: 01.01.2001
Ultima modifica: 02.12.2012
Nessun documento correlato.