Carnevale, feste, tradizioni e lavoroCarnevale, feste, tradizioni e lavoro

Aratri ed altri attrezzi per lavorare il terreno

Ciclo del granoturco o mais

Ciclo del grano


Aratura
Per rispettare il criterio della rotazione delle colture, la superficie di un podere era generalmente coltivata per metà a grano, per un quarto a granoturco e per un quarto a foraggio.

In estate, dopo la mietitura, una metà della stoppia ("stoppla"), quella seminata a foraggio nella primavera precedente, non veniva arata; l'altra metà veniva arata con l'aratro di ferro tirato da due paia di vacche. Nello stesso tempo e nello stesso modo veniva arato il "sodo" ormai libero dalle piante foraggere.
Dopo che le piogge autunnali avevano temprato il terreno, era il momento di sradicare i gambi del granoturco con un aratro di legno tirato da un paio di vacche, che scavava solchi.

Celso Mei

Nei giorni seguenti la trebbiatura ha inizio l’aratura, altro pesante lavoro dei contadini, ma quasi sacro e fondamentale alla vita, quando le macchine non avevano ancora sostituito gli animali nel lavoro dei campi.
Alle prime luci dell’alba, il contadino, aggiogate le mucche o i buoi all’aratro, camminando fra le sue bestie si avvia al grande campo delle stoppie a dissodare il terreno, che attende di essere rivoltato e purificato al sole.
Egli è coadiuvato da un altro contadino, con il quale ha messo insieme le tre o quattro paia di mucche necessarie a tirare l’aratro per tracciare il solco profondo sì da rendere fertile il terreno per il nuovo raccolto. Le mucche aggiogate, con ritmo lento, ma continuo, tirano l’aratro che addenta la terra,aprendo e ricoprendo il solco.
Il contadino con voce monotona e tono cadenzato ripete il richiamo alle mucche: “va-la biò va-la bunì”. Il ragazzino che segue le mucche incitandole con una piccola frusta, ogni tanto incespicaper i suoi occhi semichiusi.
L’alba, l’aurora, il sole. Una bassa nuvola di polvere si solleva e segue l’aratro. La massaia porta la colazione. Poi la carovana riprende il cammino: “va-la biò va-la bunì”. Quando i raggi del sole son cocenti, il lavoro s’interrompe.
Il contadino, conoscendo bene le sue mucche, sa se può riaggiogare al pomeriggio o attendere il mattino seguente.
L’aratura nei campi dei contadini che hanno messo insieme le mucche delle loro stalle ha lunga durata: un mese, forse due.
L’alba di ogni giorno è salutata da uomini e animali destinati a chiedere alla terra il pane anche per chi non lavora.

(Da: "La vecchia Fano", AMADUZZI 1981)

Livellatura

Alla semina del grano era riservata la superficie già coltivata a foraggio e quella già coltivata a granoturco.

In autunno nella parte coltivata a foraggio, arata e diventata maggese ("le majés") veniva passato l'estirpatore ("stirpator"), munito di sei vanghetti ricurvi, che aveva il compito di sgretolare le zolle ormai screpolate; successivamente veniva passato I' erpice ("erpce"), una pesante rete di elementi triangolari con grosse punte sporgenti, che aveva il compito di sminuzzare il terreno; infine passava lo strascino ("strascin") che livellava il terreno.
Gli attrezzi venivano ogni tanto puliti dal terreno e dalle radici del foraggio per mezzo della "ruscèla", una spatola di ferro triangolare immanicata su un lungo bastone.
Invece nella parte già occupata dal granoturco bastava far passare lo strascino per spianare i solchi.

Semina

La semina si effettuava in ottobre, non più a spaglio ("a rağ") com si faceva fino alla prima guerra mondiale, ma con la seminatrice ("smentatrič"), una macchina con un cassetto triangolare per la semente, due ruote, un timone e sei vanghetti con fasce tubolari a molla che interravano il grano in modo uniforme e in solchi paralleli (le marche correnti erano l'Ausonia e l'Esperia).
La varietà di grano "Frassineto", con steli alti e spighe mutiche (senza reste), di colore azzurrino, dava un alto rendimento ma aveva la tendenza ad "allettarsi", cioè a cadere durante le piogge con vento, formando letti. Perciò venne sostituita dopo pochi anni con varietà a steli più corti, come il "Mentana" di colore dorato e con spighe restate, e il "Villa Glori", molto basso e con spighe mutiche.

Concimazione

La stoppia veniva concimata con letame prima dell'aratura. Il maggese veniva concimato con perfosfato minerale prima della semina. Le piantine di grano venivano concimate in primavera, prima della zappatura, con concimi azotati (calciocianamide e fosfato ammonico).

Sarchiatura

Durante l'inverno le piantine accestivano, cioè formavano piccoli cespi. In marzo, prima che cominciassero a crescere, il terreno fra i solchi veniva accuratamente zappato allo scopo di smuovere il terreno, estirpare le erbe infestanti, interrare la sementina del foraggio. Verso il periodo della spigatura venivano estirpate le erbe infestanti più nocive, soprattutto i cespi di Avena maggiore (Avena sterilis). Restavano però molte altre specie di erbe selvatiche che fiorivano in vari periodi.

Mietitura

La mietitura consisteva nel taglio a metà altezza dei gambi del grano con grandi falci messorie, che venivano spesso passate alla cote e periodicamente battute col martello sopra piccole incudini piantate sul terreno, per rifare il filo.
I mietitori si proteggevano dal sole con cappelli di paglia; quelli delle donne, che indossavano pantaloni da uomo per proteggere le gambe dai graffi, erano più grandi di quelli degli uomini (60 - 70 cm di diametro).
Procedendo affiancati, appoggiavano le manciate di steli con le spighe sullo strame e spingevano avanti le mannelle ("gambàt") finché non erano abbastanza grosse; poi le abbandonavano per iniziarne altre.
Terminata la mietitura di un tratto di campo, solitamente di pomeriggio, si legavano i covoni ("cóv"); donne e ragazzi portavano una gambata dopo l'altra all'uomo che le metteva dentro la macchina legatrice, le stringeva abbassando la leva della macchina, legava il covone con un roccio ("roč"), cioè un tratto di filo di ferro munito di occhiello, sollevava la leva e rizzava il covone; intanto gli aiutanti avevano iniziato un altro covone con una seconda macchina.
A metà pomeriggio il lavoro veniva sospeso per la merenda a base di panettone e "limonata" (bianchello fresco di pozzo con fette di limone appena colto su una pianta in vaso).
Al termine i covoni venivano riuniti in "covate", costituite da una base di due file di covoni messi in piedi, coperte da due file di covoni sovrapposti disposti orizzontalmente: in tal modo i covoni si bagnavano di meno in caso di pioggia.
Nei giorni successivi, al termine della mietitura, donne e bambini, di casa o di famiglie di casanti, che avevano aiutato a mietere, avevano il diritto di spigolare ("fâ la spiga"), cioè di raccogliere le spighe cadute fra lo strame, specialmente fra le radure create dalla legatura dei covoni. Le spighe venivano legate in mazzi che venivano infilzati sullo strame, bene in vista per ritrovarli a fine raccolta. Il grano ottenuto dalla spigolatura, trebbiato per ultimo, spettava ai raccoglitori e non doveva essere diviso col padrone.

Celso Mei

Spigolatura

In tempi “magri” non si lasciava perdere una sola spiga nei campi coltivati a grano. Dopo la mietitura a mano con la falce e la raccolta in covoni delle “mannelle” seguiva la spigolatura.
Le donne di casa, i ragazzi e le operaie che avevano collaborato alla mietitura, a tempo perso, ripercorrevano per lungo e per largo i campi fra la stoppie, “aguzzando” la vista per vedere e raccogliere le spighe sfuggite alla falce e al legatore dei covoni.
Le spighe, quasi prive di gambo, raccolte e legate in mazzetti, erano messe insieme nella “glupa” che la donna faceva utilizzando la “paranansa”.
Essa se ne tornava a casa con il fardello sulla testa più o meno pesante in relazione alla quantità di spighe messe insieme.
Il giorno della trebbiatura ognuno portava le sue spighe all’addetto alla macchina e ne riceveva il grano; oppure non trovando disponibile la macchina provvedeva a “trebbiare” con il sistema antico e cioè battendo e ribattendo con “el frust” sulle spighe disposte su un pavimento in mattoni.
Terminata la “battitura” separava i chicchi di grano dalla pula con il vento e con “el crevell”. Anche pochi chilogrammi di grano facevano buon gioco nel magro bilancio della famiglia dell’operaio!

(Da: "La vecchia Fano", AMADUZZI 1981)

Trebbiatura

Verso la metà di luglio i covoni venivano trasportati sull'aia col biroccio, per costruire la bica ("barca"); la base della bica era costituita da covoni posti con le spighe rivolte all'interno, la cima era formata da covoni posti con le spighe rivolte all'esterno, in modo da ottenere due spioventi che facilitassero lo scolo della pioggia.
Il convoglio della trebbiatrice con al rimorchio l'elevatore della paglia, dipinto di arancione e trainato da un motore a scoppi radi e possenti (Mogul) o da una trattrice a scoppi rapidi e soffocati (Landini), faceva finalmente il suo ingresso trionfale sull'aia, chiamando subito dopo al lavoro il vicinato.
La trebbiatrice veniva piazzata di fianco alla bica, l'elevatore veniva spinto sotto il muso della trebbiatrice per raccogliere la paglia che usciva dal bocchettone e convogliarla vicino al palo centrale del pagliaio o metulo ("mitùl").
Il motore stava allineato più lontano ed era collegato alla trebbiatrice con un cintone incrociato lungo più di dieci metri e largo circa 15 cm: esso trasmetteva il movimento al cilindro a sbarre scanalate del trebbiatore e, per mezzo di numerose cinghie più piccole, ai meccanismi interni della trebbiatrice e alla cinghia che faceva ruotare i rastrelli dell'elevatore.
Mentre le persone dell' "opera" raggiungevano i propri posti, la squadra dei meccanici apriva il piano della trebbiatrice, montava il recinto di assi e scopriva il vano del trebbiatore con la buca per l'uomo che introduceva le mannelle di grano; le sbarre del trebbiatore giravano così vorticosamente che le sbarre formavano un cilindro trasparente, emettendo un ronzio udibile da lontano. Due persone passavano i covoni dalla bica a tetto della trebbiatrice; uno scioglieva i covoni dai quali attingeva l'uomo incaricato di spandere le spighe sul trebbiatore: quando la mannella era troppo grossa il cilindro rallentava un po' la sua folle rotazione emettendo un ronzio più acuto e lamentoso; due donne estraevano coi rastrelli la pula che la trebbiatrice soffiava incessantemente da una finestra sotto la pancia; due uomini robusti, capaci di trasportare un quintale sul dorso, sorvegliavano i sacchi fissati ai bocchettoni dietro la trebbiatrice, che andavano riempendosi con la cascata di chicchi che fluiva in continuazione: quando un sacco era pieno si aiutavano a caricarlo sulle spalle di uno dei due che lo portava alla bascola dove il padrone o il fattore, seduto su una sedia, ne regolava il peso prima della legatura; tre uomini, lontani dalla calca e dal polverone che avvolgeva la trebbiatrice, lavoravano alla costruzione del pagliaio, due stavano sul pagliaio per smistare con le forche la paglia che cadeva dalla cima dell'elevatore, un altro seguiva la crescita del pagliaio da terra, asportando con un rastrellino dal lungo manico la paglia dai punti dove era in eccesso.
Di quando in quando una o due ragazze giovani, vestite con qualche riguardo, portavano la caraffa dell'acqua e la boccaletta del bianchello per dar da bere alla gente sudata e impolverata; solo i due uomini isolati in cima al pagliaio restavano a bocca asciutta, potendo dissetarsi solo al termine della trebbiatura quando si calavano a terra con una fune passata attorno al metùlo.
Le donne di casa erano occupatissime a preparare il pranzo per una quindicina di persone.
I due o tre meccanici al seguito della trebbiatrice, messa in piano la macchina e collegatala col cintone al motore, riposavano a turno all'ombra di un filare di viti; ogni tanto uno, seguendo la crescita del pagliaio, manovrava una leva per allungare e alzare l'elevatore.
Velocemente come avevano disposto il convoglio all'inizio della trebbiatura, al termine ne invertivano la disposizione, col motore davanti pronto per la partenza.
Per la squadra della trebbiatrice il lavoro non aveva mai soste: trebbiavano di giorno e di notte alla luce intensa delle lampade ad acetilene.
Al termine della trebbiatura, che era segnalato da un secondo urlo della sirena, i lavoranti si davano una lavata sommaria e si sedevano alla tavola apparecchiata con pietanze gustose e abbondanti.
Gli uomini della trebbiatrice consumavano un pasto frettoloso, ansiosi come erano di ripartire per un'altra aia; quelli del posto la prendevano calma e assaporavano con tutto comodo le varie portate, che era un peccato lasciare sul tavolo.

Strame

Alla trebbiatura seguiva la falciatura delle stoppie e la costruzione del pagliaio dello strame ("stran").
Tradizionalmente la falciatura delle stoppie veniva eseguita a mano con le falci fienaie, richiedendo una fatica lunga e massacrante; ma verso il tempo della prima guerra mondiale i poderi più grandi cominciarono a dotarsi di falciatrici meccaniche di fabbricazione americana (di marca Osborne), trainata da un paio di vacche.
Allora il falciatore si limitava a guidare le bestie stando comodamente seduto su un sedile fissato a una sbarra elastica.
Per la falciatura del foraggio bastava solo un uomo dato che il foraggio tagliato restava dietro la sega falciatrice a seccare in lunghe strisce.
Ma la falciatura dello strame richiedeva la presenza di una donna o di un ragazzo, col compito poco gradevole di camminare dietro la lama falciatrice reggendo in pugno quattro fili di ferro, legati dietro la guida della sega, che servivano per raccogliere lo strame man mano che veniva tagliato. Il ragazzo camminava scalzo o coi sandali che però non lo riparavano dalle punture degli spunzoni dello strame tagliato; cercava di camminare fra un solco e l'altro e, quando la rocciata era completa, mediante i rocci che teneva in mano, la spostava rovesciandola dietro la falciatrice. Poi lasciava scorrere i rocci e li raccoglieva per formare la nuova rocciata.
Durante questa operazione si trovava a incrociare la scia delle vacche e a mettere i piedi sulle mète semiliquide e tiepide che esse rilasciavano durante il lavoro; il che portava qualche sollievo ai piedi graffiati.

Disinfestazione

La parte di grano spettante al mezzadro finiva nel magazzino, in uno spesso strato (nel quale i ragazzi amavano immergersi e giocare).
Due quintali per persona erano destinati al consumo famimigliare; l'eccedenza veniva conservata per essere venduta al momento più opportuno.
Capitava spesso che il raccolto venisse infestato da una farfallina bianca, a forma di uno stretto angolo acuto, le cui piccole larve rosicchiavano i chicchi e poi si trasformavano in crisalidi entro una protezione formata da alcuni chicchi uniti da fili di bava.
Per la disinfestazione occorreva versare in profondità, in diversi punti, mediante un imbuto munito di un tubo di gomma, un liquido pestilenziale, l'acido solfidrico.
Il trattamento richiedeva la chiusura ermetica delle fessure delle finestre e della porta mediante strisce di carta incollate.

Vagliatura

Il grano trebbiato conteneva semi di piante infestanti (soprattutto veccia e avena) e semi di diversa dimensione per cui andava setacciato o passato allo svecciatoio. Tradizionalmente l'operazione era eseguita mediante crivelli giganti dal fondo di pelle traforato con fori di varia forma, sostenuto mediante corde da un treppiede di pali di legno.
Lo svecciatoio meccanico consisteva in un lungo cilindro inclinato, perforato, sostenuto da un telaio, azionato mano, trasportato di casa in casa mediante un carretto tirato da un somaro.
Il grano, versato dalla parte sollevata, percorreva tutto il cilindro, passando attraverso fori di diversa misura e cadendo entro una fila di cassetti posti a terra, distribuendosi secondo le dimensioni e separandosi dai semi infestanti.
I semi rinsecchiti o rotti, detti "esca", finivano nel primo cassetto ed erano destinati come becchime per i polli; quelli di media grossezza venivano usati come semente; i più grossi erano destinati alla molitura (i semi di veccia erano una ghiottoneria per i piccioni).

Molitura

I sacchi del grano da macinare venivano trasportati col biroccio al mulino di Carrara. Si poteva scegliere tra la molitura all'antica mediante gigantesche mole di pietra (che venivano periodicamente scalpellate) o in modo moderno mediante il mulino a cilindri che eseguiva anche la setacciatura per separare la farina dalla semola. La farina, in polvere impalpabile, riempiva l'ambiente depositandosi ovunque, anche sulla testa e sui vestiti dei due o tre addetti alle macchine, che sembravano fantasmi.
Nel locale si diffondeva un odore caldo, di bruciato. Per evitare distrazioni, il mugnaio, fedelissimo al regime,aveva esposto il prescritto cartello con la scritta:
"Qui non si fanno discorsi di alta politica e di alta strategia: si lavora" (si sarebbe cercato invano un altro luogo dove tali discorsi erano permessi). Al mulino si potevano anche macinare le fave, l'orzo, il granoturco, i tutoli, utilizzando macchine apposite. Si potevano anche portare a trebbiare le piante foraggere da seme.

Celso Mei

Il crivello

“El crevell” è un attrezzo che si usava mezzo secolo fa per vagliare, cioè liberare dalle scorie ed altre impurità il grano ed altri cereali.
È costituito da un’assicella di legno dallo spessore di pochi millimetri, alta dai dodici ai quindici centimetri, curvata fino a formare un cerchio dal diametro di circa un metro, con il fondo in lamina metallica perforata, o di rete di fili di ferro, o di una membrana di pelle bucherellata.
“El crevell” si usava appendendolo con una fune ad una trave mantenendolo all’altezza giusta dell’uomo che doveva imprimergli il continuo movimento per la vagliatura. Era posto di solito in un luogo ventilato per favorire la fuga della polvere.
La separazione dei chicchi contenuti nella spiga del grano e di altri cereali dalla pula, quando ancora non era stata inventata e costruita la macchina, si effettuava mediante “ el frust” o altri sistemi primordiali.
Seguiva la ventilazione che consisteva nel far cadere dall’alto i chicchi misti a pula contro vento o investendoli con una corrente d’aria, per separarli dalle scorie.
Dopo questa prima operazione, si procedeva alla vagliatura, cioè ad un ulteriore separazione dei chicchi dalle rimanenti scorie ed impurità con “el crevell”.

(Da: "La vecchia Fano", AMADUZZI, 1981).

La macina a mano

Era costituita da due parti: una superiore ruotante, provvista di fori in cui si inserivano i manici, e una di base. Era azionata a mano e serviva per macinare cereali, in particolare grano e granoturco.
Molte famiglie contadine ne possedevano una; veniva usata nei casi di carenza di farina, quando si era in difficoltà a raggiungere il mulino o allorquando esso per mancanza di acqua restava inattivo.
Evidentemente si possono macinare solo piccole quantità e la farina ottenuta non è sicuramente delle migliori, ma, in ogni caso, è meglio di niente. Tale macina tornava utile anche per evadere il fisco, in merito ai balzelli sul macinato, molto frequenti nei secoli passati.

Emilio Pierucci


Dettaglio scheda
  • Data di redazione: 01.01.2001
    Ultima modifica: 12.02.2008

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