Carnevale, feste, tradizioni e lavoro
Ciclo della vite
Filari
Fino alla prima metà del secolo scorso i filari ("filón") paralleli di viti, distanti fra loro 12 -15 metri, sostenuti da oppi (aceri campestri) o mandorli piantati ogni dieci metri costituivano l'elemento caratteristico del paesaggio agricolo della valle; terreni liberi da filari, detti "campi", erano rari. Poche anche le zone a vigneto.
Impianto
L'impianto di un filare richiedeva uno scasso ("scasat") profondo e largo circa un metro, che aveva inizio con un' accurata misurazione e il collocamento di una fila di biffe (canne con un pezzo di carta piegato inserito in uno spacco).
In autunno il terreno veniva aperto con due solchi in un senso e due nell'altro in modo da spostare la terra ai due lati lasciando un fosso al centro; seguiva l'operazione della "scoperta", cioè della spalatura del terreno smosso che veniva gettato ai due lati formando due cordoni.
Il lavoro di scasso vero e proprio veniva eseguito in inverno e consisteva nella vangatura di tre strati dì terreno o "fette": la prima fetta veniva vangata e gettata in una buca scavata in precedenza, la seconda veniva vangata e poi spalata verso la parte superiore dello scasso, la terza veniva smossa con la vanga e lasciata sul posto.
Il lavoro procedeva eseguendo un tratto di scasso alla volta, della lunghezza di circa un metro.
Il lavoro eseguito dal mezzadro o da un garzone o da un bracciante, misurato in canne (corrispondenti a quattro metri) era retribuito dal padrone del podere, il quale saggiava lo scasso con un palo di ferro per accertarsi che il terreno fosse smosso fino alla giusta profondità.
Piantumazione
Nella primavera successiva si piantavano, ben allineate al centro dello scasso, le barbatelle, cioè le talee con radici, ottenute da tratti di tralci di vite americana lunghi circa 80 cm, acquistate al mercato del bestiame. L'uso della vite americana serviva per evitare la devastazione delle viti da parte della fillossera (insetto). Le viti erano piantate alla distanza di un metro l'una dal l'altra; ogni dieci metri si collocava l'oppio.
Dopo due anni le piante erano cresciute abbastanza da poterle innestare con marze da uva (solitamente prelevate da viti di bianchello); qualche vite cominciava a produrre il primo grappolo nel corso dello stesso anno.
In attesa che gli oppi crescessero, i due fili di sostegno delle viti erano tesi fra due pali di legno o di cemento piantati alle due estremità del filare.
Le viti venivano "incannate", cioè sostenute da canne legate con vinchi ai due fili di ferro orizzontali.
Potatura
L'inverno era il tempo della potatura che consisteva nella sfoltitura dei tralci ("majoj") dell'anno precedente per lasciare uno o più tralci fruttiferi spuntati e un corto sperone ("spron") destinato a produrre i tralci fruttiferi per l'anno successivo.
Le potature delle viti, degli oppi e di altri eventuali alberi da frutto dei filari venivano raccolte e legate in fascine con le "rocce", cioè i rami sottili di olmo con cappio ottenuto torcendo la cima.
Le fascine venivano accumulate in una catasta nell'aia e servivano per alimentare il fuoco sotto il caldaro. Una seconda potatura o "sbroccatura" veniva eseguita in primavera dopo la fioritura dei grappoli; i tralci teneri ("sbroc") ottenuti dalla cimatura dei tralci servivano da foraggio.
Trattamenti
Dalla primavera all'estate i pampini venivano irrorati quattro o cinque volte con solfato di rame ("vetriòl") misto a calce spenta per combattere la peronospora, un fungo che faceva seccare i pampini e i grappoli.
Il lavoro era eseguito mediante la pompa irroratrice portata a spalla da un uomo adulto, che le goccioline di solfato di rame coloravano di azzurro: camicione, pantaloni, cappello, viso e mani; l'uomo veniva rifornito di quando in quando da una donna o dal garzone che gli portavano il liquido in un orcio, anch'esso colorato di azzurro.
Mediante una pompa a soffietto ("solfnara") veniva somministrato lo zolfo in polvere sui grappoli in formazione contro l'oidio.
I trattamenti si rendevano indispensabili soprattutto dopo un acquazzone estivo, con sole e aria umida.
Concimazione
D'estate il terreno sotto i filari veniva aperto mediante l'aratura e la zappatura per eliminare la gramigna e altre erbe infestanti; nel fossato veniva versato il letame che poi veniva ricoperto versandovi terra con l'aratro di legno.
Pigiatura
La pigiatura veniva eseguita entro un tino piccolo ("tinèla"), coi piedi o con la pigiatrice azionata a mano o col motore a scoppio.
Il mosto, insieme a una parte delle vinacce, veniva messo a fermentare in un tino grande ("tinàc"); il resto delle vinacce torchiato a mano era messo a fermentare con l'aggiunta di acqua per ottenere il mezzovino ("mezvìn") da bere fino alla primavera.
La fermentazione di vinacce semitorchiate con l'aggiunta di acqua e una completa torchiatura finale produceva l'acquaticcio ("pciòl"), leggero e frizzante, da consumare entro l' anno.
Dopo una quindicina di giorni il vino novello, ancora un po' torbido, di sapore fra l'aspro e il dolce si poteva bere o versare nelle botti, messe in precedenza a stagnare con un velo d'acqua sopra uno dei fondi.
Il vino continuava a fermentare lentamente con l'aiuto della "grana", una certa quantità di acini d'uva sgranati e senza raspi, versata dal buco sopra la botte.
Al termine dell'inverno, in un giorno in cui non tirava il vento "garbin" o "curina" che poteva farlo curinare, cioè annerire nel bicchiere e diventare arnarognolo, veniva spillato e travasato ("svinât") versandolo in una botte già usata per la fermentazione, possibilmente coperta all'interno da concrezioni di tartaro, che veniva ben lavata e disinfettata con zolfo bruciato entro un coppone da tetto. Il coppone, con strisce di carta impregnate di zolfo fuso, veniva introdotto attraverso l'usciolo che veniva poi richiuso (cfr. la disinfezione ordinata da Ulisse dopo la strage dei Proci).
Terminata la spillatura, veniva aperto l'usciolo per liberare la botte dalle fecce che venivano date da bere alle vacche (con qualche effetto euforico) o distillate per ricavarne l'alcool (ma era proibito) mediante una tanica di ferro munita di serpentina e scaldata sul fuoco.
Vinacce
Le vinacce torchiate venivano sminuzzate e messe a essiccare sull'aia, separando poi i raspi dalle vinacce e dai vinaccioli; i primi venivano bruciati sull'arola, le seconde date ammollate alle vacche, i terzi bruciati o portati al frantoio che ne ricavava un olio buono sia per condire che per fare vernici.
Dettaglio scheda
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Data di redazione: 01.01.2001
Ultima modifica: 20.12.2004
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